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Le ultime cose

29/09/2016 11:00

Eleonora Piazza

Recensione Film,

Le ultime cose

Esce nelle sale Le ultime cose, cornice dorata che illumina, con sguardo sommesso ma puntuale, un quadro i cui personaggi sono abitualmente relegati nell’ombra.

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Esce nelle sale Le ultime cose, cornice dorata che illumina, con sguardo sommesso ma puntuale, un quadro i cui personaggi sono abitualmente relegati nell’ombra. Il primo lungometraggio di finzione di Irene Dionisio, giovane regista e sceneggiatrice, autrice di Sponde, la cui sceneggiatura ha vinto il premio Solinas come Miglior Documentario per il cinema nel 2012.


Le ultime cose nasce proprio dall’esigenza documentaristica della regista di mostrare i luoghi e gli apparati istituzionali dove la crisi - economica quanto interiore – germoglia. Adottando una prospettiva più che innovativa, la paura non è qui inflitta da un leviatano intangibile che troneggia sulla gente, ma da un faccia a faccia diretto tra vittime e carnefici. Nel film, il luogo fisico in cui questo nudo confronto avviene è il Banco dei pegni di Torino, sotto lo sguardo incredulo del giovanissimo apprendista Stefano (Fabrizio Falco) che per la prima volta entra in contatto con i clienti e con la precarietà delle loro vite. Il suo punto di vista è anche il nostro, che - nel corso degli ottantacinque minuti di film - prendiamo coscienza di una realtà che si fa sempre meno aleatoria. Il ragazzo assiste impotente agli amari retroscena del banco, gestiti dall’enigmatico Sergio - un fantastico Roberto De Francesco - che annichilisce gli avventori che si recano lì per abbandonare ciò che hanno di più caro, nella speranza un giorno di riprenderselo. Tra le varie storie che si avvicendano sullo schermo, la regia, attenta e materna, sceglie di seguirne in particolare due: quella di Sandra (Christina Rosamilia), giovane trans in fuga dal suo passato e rifiutata dalla sua famiglia, e quella di Michele (Alfonso Santagata) pensionato travolto dalle spese di famiglia. Personaggi molto intensi che, diversissimi tra loro, permettono di far cogliere al pubblico, senza filtri buonisti, quanto ampio e variegato sia il panorama dei debitori, nel momento in cui il debito non è più solo economico ma si trasforma in senso d’inadeguatezza. Il vetro del banco si fa dunque metafora, costante in tutto il film, della distanza che intercorre tra l’alto e il basso, tra il dentro e fuori, tra il potere e il non-potere; è il racconto corale ed estremamente visivo di un microcosmo incomprensibile, in cui, quasi come in un girone dantesco, esseri umani si aggirano disarmati in un vortice di sacrifici, non ultimo quello della propria dignità.


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