Dopo la morte della madre, Lilian (Julia Stiles) torna a vivere nella cittadina della sua infanzia, in una casa nei boschi al confine tra Stati Uniti e Canada. Quando un uomo, Blackway (Ray Liotta), inizia a perseguitarla lei si rivolge allo sceriffo, che si rifiuta di aiutarla. Cosa c'è quindi dietro a questo criminale misterioso di cui nessuno vuole occuparsi? Lilian lo scoprirà grazie all'aiuto di Lester (Anthony Hopkins), un boscaiolo determinato a fare giustizia. Lilian cerca qualcuno che la aiuti. Chi vuole aiutarla cerca un criminale. Quel criminale cerca Lilian. È questa la struttura circolare e decisamente ridondante sulla quale poggia Go with me, thriller di Daniel Alfredson con il Premio Oscar Anthony Hopkins e Ray Liotta. Un film statico e ripetitivo, che non rende giustizia a nessuno dei temi affrontati, compreso quello della violenza sulle donne. Lilian è una protagonista debole, non solo nell'economia del film ma anche all'interno della vicenda: e se la presentazione del super villain Blackway in contrapposizione alla bionda vittima inerme appare stereotipata e involontariamente ridicola (con un povero gatto assassinato a farne le spese), l'immobilità di Lilian paralizza tutta la prima parte del film. Go with me impiega più del necessario a mettersi in moto. Solo l'ingresso nella storia di Antony Hopkins (insieme al bravo Alexander Ludwig) riesce a ridare ritmo alla storia. Ma il suo Lester, così malinconico e irrisolto, non trova mai piena realizzazione e resta sottotono anche quando tutti gli altri interpreti sono sopra le righe. Ray Liotta presta il suo volto a un cattivo il cui profilo resta privo di spessore, pieno di sadismo e violenza. Una violenza che ad Alfredson, autore di due capitoli svedesi della saga cult Millennium, interessa di certo investigare ma che qui viene mostrata senza troppi complimenti e mediazioni, finendo per risultare gratuita. Ogni cosa di Go with me, dalle interpretazioni alla regia e soprattutto allo sviluppo narrativo, appare senza energia. Grigio, come la fotografia di Rasmus Videbæk. Se l'idea di fondo voleva essere raccontare una realtà provinciale e isolata, fatta di casi umani e deviazioni accettate, la mancata interazione fra i personaggi e fra le parti del film risulta solo generare un impianto privo di movimento e in cui nessuno dei protagonisti cambia o evolve. Dove i viaggi sono solo spostamenti da un punto all'altro e la trama non è che una caccia all'uomo, con poca azione e tanto isterismo cowboy.