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Abel - Il figlio del vento

16/10/2016 10:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

Abel - Il figlio del vento

Il più forte sopravvive: è la legge della natura, dall’alba dei tempi, ed è immutabile...

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Il più forte sopravvive: è la legge della natura, dall’alba dei tempi, ed è immutabile. Lo sanno bene i due fratelli aquila che vivono in un nido nelle fredde cime delle Alpi europee: nella lotta, l’uno contro l’altro, per la sopravvivenza, il più piccolo e debole aquilotto cede dinanzi alla forza del fratello, che riesce a conquistare il nido. Fortunatamente, tuttavia, al cucciolo spetta un’altra fortuna: quella di aver trovato salvezza nelle mani di Lukas, un giovane ragazzo, afflitto dalla morte prematura della madre, che si prenderà cura di lui.


Si potrebbe dire che il vero protagonista della vicenda sia il piccolo d’aquila, oppure il ragazzo problematico che vive un’esistenza quieta - assieme a un padre che pure non sembra gradire alcun tipo di conversazione - e conserva un trauma soppresso nel silenzio, ma la verità è che l’opera concepita nel 2011 da Gerardo Olivares (che abbiamo conosciuto grazie a Il Grande Match, soprattutto) e Otmar Penker guarda oltre, stabilendo la centralità di un rapporto come reale fulcro e motore delle vicende narrate. Il rapporto di cui viene trattato, quello fra un animale e un “cucciolo” umano in cui a vincere è sempre l’aiuto reciproco nei casi di difficoltà, rende Abel – Il figlio del vento un film del tutto somigliante a prodotti fra cui Vita di Pi, Belle & Sebastien (di cui ricordiamo il recente, e meno riuscito, sequel) o, ancora prima, Il Libro della Giungla.


Forte della sua impronta documentaristica, resa ancor più apprezzabile da verdeggianti location naturali assolutamente spettacolari e da uno sguardo di rara delicatezza sull’incessante pullulare della fauna alpina che spezza l’apparente quiete di boschi e altri tipi di paesaggi montani, Abel – Il figlio del vento guarda soprattutto al mondo delle favole per farsi essa stessa favola, e riesce a umanizzare i tratti di ogni essere animale e renderlo degno interlocutore dell’umano. Purtroppo, però, l’opera non riesce a rendere la propria componente di finzione altrettanto credibile ed efficace: nonostante, infatti, l’ottima performance del giovanissimo Manuel Camacho possa fungere da sostegno, essa non basta sicuramente a controbilanciare una sceneggiatura piatta che segue binari prestabiliti e non offre mai alcun particolare spunto di riflessione. All’eccellente lavoro di regia combinata, che può contare su una fotografia in grado di enfatizzare le sequenze più spettacolari (prima fra tutte la schiusura del nido, nei primi minuti del film), non si accompagna un’altrettanto adeguato rapporto di consequenzialità fra prima parte, incentrata sulla crescita dell’aquila e del rapporto con il bambino, e seconda parte, focalizzata invece sul distacco e sulla lontananza dei due protagonisti. Il ritmo cala inesorabilmente, tutto diviene scontato e l’emotività viene intaccata fino al suo annullamento nel prevedibile finale verso cui, progressivamente, si scivola.


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