L’incapacità di elaborare un lutto come ossessione. La storia di Diane (Emmanuelle Devos) e della sua rincorsa senza tregua verso la verità è raccontata in Per mio figlio, nuova pellicola drammatica del regista svizzero Frédéric Mermoud, vincitore del Variety Award al Festival di Locarno 2016. Diane ha perso il figlio in un incidente stradale e da mesi è sulle tracce dell’autista scappato via senza prestare soccorso. Non ricevendo adeguato sostegno, si avvale dell’aiuto di un investigatore privato, con il quale individua i possibili detentori di una macchina simile a quella responsabile della tragedia. Armata di pistola, Diane è decisa a farsi giustizia da sola. Ma la frenesia della donna è costretta a rallentare quando si avvicina all’ipotetica assassina di suo figlio, Marlène (Nathalie Baye). Un crescendo di suspance tiene lo spettatore sempre all’erta ma, al tempo stesso, lo confonde quando la trama di dedica al racconto del rapporto fra Diane e Marlene. Il piano della protagonista va a scomporsi mano a mano che il tempo passa, risultando sempre più difficile: Diane trova un’amica e un altro essere umano, in tutta la sua complessità. La regia traduce abilmente in immagini lo stato d’animo della protagonista: è dalla sua auto che molti eventi vengono vissuti ed è dai suoi specchietti che viene osservata e spiata la vita degli avversari. Il “viaggio” che Diane compie si rivela strumento di comprensione di se stessa e degli altri, e la vendetta diventa un motore importante verso l’accettazione dell’accaduto e la metabolizzazione del dolore. L’immagine è densa e pittorica; la colonna sonora elettronica, ideata dai musicisti Christian Garcia e Grégoire Hetzel (con cui il regista aveva già collaborato in Complices, suo primo lungometraggio) descrive perfettamente l’inquietudine. Le due fantastiche attrici, Emmanuelle Devos e Nathalie Baye, fanno il resto. La Devos, a detta del regista, risultava perfetta per il personaggio: il suo sguardo inquietante lascia intuire il turbamento che si nasconde sotto la superficie; la calma apparente è disturbante e spaventa lo spettatore. Nathalie Baye ha collaborato in prima persona alla costruzione del personaggio di Marléne, rispondendo al non semplice compito di rendere sfaccettata una figura che rischiava fortemente di cadere nel cliché. Per mio figlio è l'adattamento di Moka, romanzo di Tatiana de Rosnay, traslato da Mermoud dall’universo parigino al confine franco-svizzero, a lui più familiare. I toni noir tuttavia sono gli stessi del libro, associati all’introspezione del suo cinema, con la collaborazione dello sceneggiatore Antonin Martin-Hilbert. Nonostante l'epilogo deludente, scoprire il colpevole si rivela soltanto il pretesto della vicenda; la scusa per dare ritmo alla narrazione e permettere alla protagonista di portare a compimento il suo percorso di riconciliazione con se stessa.