Era il 2002 quando – venticinque anni dopo essere stato evocato da un vecchio e malinconico Obi-Wan Kenobi (e questo la dice lunga sulla lungimiranza e la coerenza del poderoso universo lucasiano) – Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni approdava fragorosamente sul grande schermo. Arrivava con l'irruenza di uno spettacolo senza precedenti l'ultima fatica di George Lucas, quinto film della saga e secondo capitolo di una storia giunta, oramai, a una svolta epocale. Perché se già il precedente aveva cominciato a tracciare quel solco epico e asettico che così prepotentemente aveva marcato le distanze dallo spirito fantasy della trilogia originaria, è Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni a farsi vero e definitivo terreno di prova per portare quella visione e quella filosofia a compimento, per realizzare, definitivamente, quell'affresco digitale ed esplicitamente (fanta)politico che Lucas corteggiava da anni. Abbandonati infantilismi e facili ammiccamenti alla vecchia trilogia, l'autore-demiurgo – ancora una volta dietro la macchina da presa – si getta a capofitto nella sua nuova, debordante idea di spettacolo, allestendo, per dispendio di tecnica e immaginario, un'opera sui generis: immensa come le nuove possibilità del digitale, fredda ed emotivamente respingente come solo la tecnologia sa essere, quando male indirizzata. Paiono proprio essere l'empatia e l'autenticità i principali problemi di un film come L'attacco dei cloni, incapace tanto di sintetizzare e dare personalità – nel marasma potenzialmente infinito di dati e informazioni – a quell'universo denso e ingombrante, quanto di mettere in scena qualsiasi sentimento, persino il più elementare, persino quello che dovrebbero fare da traino all'intera vicenda. Difficile scovare, nella tormentata storia d'amore tra il giovane padawan Anakin Skywalker e la senatrice Padme Amidala, qualche barlume delle schermaglie amorose tra Han Solo e la Principessa Leila, difficile condividere persino il destino di un amore proibito e impossibile, ridotto, casomai, ad algido intermezzo, siparietto sentimentale completamente subordinato agli eventi che esplodono tutt'attorno, alla guerra civile, agli intrighi politici, alle profetiche avvisaglie di sventura e alle esplorazioni minuziose di un immaginario dove niente è più suggerito o evocato, ma tutto è mostrato, spiegato, imposto. Eppure, se bastasse la recitazione zoppicante e monocorde di qualche interprete o l'arroganza di una messa in scena troppo sicura e fiduciosa dei suoi mezzi per affossare la monumentale cronaca di Episodio II non staremmo, a quasi quindici anni di distanza, ancora a parlarne. Perché è il senso di meraviglia per l'avventura a non essersi mai del tutto sopito in Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni, nonostante i toni didascalici e seriosi, nonostante i green screen imperanti, nonostante i personaggi bidimensionali. Certo, sono lontani i tempi in cui al secondo episodio di una trilogia veniva affidata la responsabilità di essere il capitolo più emotivamente pregnante, più incisivo, più carico di aspettative. Ma pare comunque difficile non cedere ancora al fascino, o per lo meno alla familiarità , di quell'universo, difficile non voler assistere, ancora una volta, a un inseguimento/scontro come quello tra Obi-Wan e Jango Fett, perdersi tra i palazzi e il bestiario di Coruscant o osservare, impotenti e trepidanti, il dispiegarsi delle trame ordite dal Potere (leggi Lato Oscuro). Nell'attesa di vedere come, finalmente, tutto finirà per cominciare di nuovo. E questa volta per davvero.