Michèle Leblanc è una donna in carriera di mezz'età dai complicati legami familiari: il figlio aspetta un bambino, non suo, dall'attuale fidanzata; l'anziana madre è prossima a risposarsi con un uomo di molti anni più giovane; il padre sta scontando l'ergastolo per un famigerato atto di cronaca nera risalente agli anni '70; il suo ex-marito sta frequentando una studentessa. Lei stessa ha una relazione fedifraga con il compagno della sua migliore amica. Come se questa situazione non fosse già fin troppo complicata, Michèle è vittima di uno stupro subito in casa da un individuo incappucciato entrato con la forza. Nonostante il trauma, la donna non è però intenzionata a denunciare il fatto alla polizia. Mancava dalle scene da un decennio, escludendo l'affascinante mediometraggio sperimentale Steekspel (2012), il genio di Paul Verhoeven. E mai ritorno poteva essere più in grande stile. Con Elle il regista olandese realizza un'opera atipica e allo stesso tempo ideale nella progressione della sua straordinaria, e troppo spesso sottovalutata, carriera. Paul Verhoeven dà alla luce un morboso e inquieto ibrido tra la commedia nera francese e il thriller di ispirazione hitchcockiana, giocando con i suoi personaggi come un crudele e beffardo burattinaio. Tante esistenze in una sono quelle vissute dalla protagonista nelle due ore di visione, con riflessi sociali di un'umanità allo sbando che circondano senza concedere respiro una donna i cui successi lavorativi non coincidono con la vita privata. Situazioni fuori dal mondo, esasperate nei loro eccessi che rimangono a ogni modo saldamente ancorati a una società malata e senza speranza, specchio livido di un mondo decomposto ai minimi, primordiali, termini. Tutto il film è pervaso da una tensione costante in cui l'emotività , apparentemente trattenuta ma in realtà esplosiva, non lascia un attimo di fiato, sempre in attesa del prossimo sbocco narrativo prima che il più sereno epilogo sigli la corretta chiusura del cerchio. Lo stesso colpo di scena sull'identità dello stupratore, elemento scatenante (con la violenza che si consuma per la prima volta fuoricampo durante i titoli di testa) dell'intera vicenda è volutamente prevedibile, demistificando astutamente la ricerca del "villain" in una delle tante sottotrame che legano la complessiva struttura narrativa. Qui è l'ambiguità di fondo a determinare i destini dei partecipanti a questo intenso e aspro gioco al massacro fatto di battute e accesi contrasti, orchestrata dal regista tramite inquadrature e situazioni voyeuristiche, drammatiche o più ilari a seconda degli eventi, trovando nella memorabile performance di una straordinaria Isabelle Huppert il miglior cavallo di Troia per lacerare le difese del pubblico.