Recentemente sono diventati virali su Facebook i fotomontaggi dell'autore satirico israeliano Shahal Shapira, il quale ha ripreso immagini scattate al Memoriale dell'Olocausto di Berlino, ritraenti giovani ragazzi/e sorridenti, e sostituito al contesto attuale le scioccanti diapositive dei campi di concentramento. Un modo per sottolineare la sempre più costante indifferenza delle persone di fronte a una delle più grandi tragedie della storia dell'umanità . In maniera non troppo diversa questo è anche il compito cercato da Austerlitz, documentario tedesco diretto dal regista ucraino Sergei Loznitsa e presentato fuori concorso alla 73esima edizione del Festival di Venezia, che ora giunge in sala grazie a Lab80. Un freddo bianco e nero, inquadrature fisse, i rumori ambientali a caratterizzare la quasi totalità del comparto sonoro nei novanta minuti di visione: ci troviamo di fronte a un'opera rispettosa e inquietante al contempo, specchio di una moderna società di individui la cui curiosità è sempre più figlia di un istinto morboso e disinteressato alle sofferenze altrui. Una calca di persone che scavalca la soglia del museo di Sachsenhausen apre il documentario, con la fine della visita a chiuderla: ad accomunare prologo ed epilogo è il copioso numero di selfie che gruppi di amici e famiglie decidono di scattare irrispettosamente sotto la tristemente famosa scritta Arbeit macht frei ("Il lavoro rende liberi"). Le uniche parole udite, le prime sentite dopo quasi mezzora, sono quelle delle guide che ripercorrono per informare i turisti degli avvenimenti che avvenivano nelle rispettive location, dalle docce ai forni crematori fino alle celle di tortura e prigionia; peccato che la maggior parte degli ascoltatori sembri annoiata e per nulla coinvolta (tranne rarissimi casi) dal dramma che si è vissuto all'interno di quello che diventa un semplice "vezzo" da aggiungere alla lista di posti da vedere una volta nella vita. La sofferenza che fu si rispecchia ora nell'indifferenza dei tanti, ponendo anche lucidi quesiti su quanto sia giusto esporre al pubblico interesse un macabro tempio di morte e atrocità che ai tempi degli smartphone e dei social network diventa solo un amaro veicolo per le più umane, e ormai naturali, bassezze. La scelta stilistica fatta di lunghe riprese immobili, con la videocamera posizionata in alcuni luoghi simbolo, è allo stesso tempo punto di forza e limite di un'operazione che osserva la realtà lasciando il giudizio allo spettatore, costretto gioco-forza a stare al gioco per comprendere al meglio tutte le sfumature di una contemporaneità sempre più distaccata dall'indispensabile ed etica empatia.