Storie di donne. Donne forti, intelligenti, determinate, brillanti. E straniere. Strane straniere ci presenta uno stereotipo di immigrata completamente diverso da quello con cui siamo abituati a confrontarci. Il nuovo film documento di Elisa Amoruso - regista che aveva già toccato i temi dell’emarginazione con Fuoristrada, del 2013 - ci prende per mano e ci racconta le vite di cinque formidabili donne, quasi spiandole nelle loro vite reali. Radi, Sihem, Sonia, Ljuba e Ana hanno storie molto intense e un destino simile: i motivi che le hanno portate vie dalle loro terre d’origine sono diversi ma, una volta sole in Italia, tutte e cinque hanno saputo ricostruirsi una propria identità , dando vita a dei piccoli grandi progetti di imprenditoria femminile, integrandosi bene nella nuova comunità e superando dolore, solitudine e ostacoli burocratici con coraggio e determinazione. E hanno saputo dare un nuovo significato al concetto comune di immigrazione. Radi è bulgara e, dopo un amore finito male, si innamora del mare e dà vita con altre due donne all’unica piccola produzione europea di salse artigianali pronte di pesce e verdure. Sihem è tunisina. Vive con il compagno nella campagna laziale e gestiscono un’associazione di volontariato che provvede ai bisogni primari e lavorativi di persone meno abbienti, stranieri e non. Sonia gestisce il ristorante cinese più famoso di Roma: ha avuto problemi con il marito, ma già da diversi anni, con grande piglio ha saputo creare un piccolo impero della ristorazione romana, continuando sempre a cercare la massima soddisfazione dei suoi clienti. Ljuba e Ana sono due ex-jugoslave: quando sono arrivate in Italia la guerra non aveva ancora scisso così indissolubilmente le loro due etnie portandole all’odio reciproco. E così queste due donne oggi sono inseparabili, nonostante siano una serba e l’altra croata, unite dall’integrazione in un altro paese e dall’amore per l’arte, che è diventato il loro lavoro. Quelle narrate in Strane straniere sono storie che provengono dal lungo lavoro della co-sceneggiatrice del film, l’antropologa Maria Antonietta Mariani, sulla migrazione femminile. La sua indagine è rivolta soprattutto a ricercare un abbattimento degli stereotipi tradizionali, per cercare invece un filo conduttore comune che susciti nuovi pensieri ed emozioni sull’immagine delle immigrate nel nostro paese. Attraverso il filtro di inquadrature fotografiche e un montaggio che lega momenti diversi secondo un accordo emotivo parallelo, la regista ci porta nella vita di questi personaggi così forti e positivi. La scelta estetica, che diventa di contenuto, dello studio delle somiglianze affettive, ambientali e anche fisiche, dà grande dignità estetica al docufilm. Si vuole restituire così un’inesplorata visione, esponendo il rilevante fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati nel nostro paese e facendo comprendere come le minoranze non vadano emarginate ma considerate come un valore aggiunto. Il filo che accomuna le donne protagoniste del film è spesso una storia sentimentale sbagliata o un vissuto doloroso, che però diventa occasione di riscatto ed emancipazione e permette loro di integrarsi alla perfezione nella nuova comunità e di avere una progettualità per il loro avvenire. E cercare una nuova dimensione all’interno di ognuna di loro. Nel guardare all’altro dentro di sé, le protagoniste riescono a invertire i sistemi di provenienza e di arrivo. E rileggendo la propria storia, trovando il punto focale di cambiamento, la loro nuova io può produrre una nuova realtà lavorativa.