Confuso e un po' delirante, Beppe Grillo in Grillo VS Grillo esce sconfitto da se stesso. Lo spettacolo lascia la sensazione di un incontro con un amico che non si vedeva da tanto tempo e che aveva promesso di avere molte cose da raccontare: l'amico Beppe si è certamente sfogato, ma chi è rimasto ad ascoltarlo resta un po' interdetto, senza capire fino in fondo quale fosse il problema di partenza. Nessuno nega al comico genovese la capacità di far ridere, soprattutto nella prima parte (una delle battute più belle: «Senza malinconia gli usignoli cosa farebbero? Rutterebbero tutto il giorno»); alla lunga, però, quando prevale il Grillo politico e futurologo, lo spettacolo si perde, insieme a parte della sua verve. Sul gusto per il trash e la battuta volgare vince la supponenza del protagonista. L'autoironia tagliente sugli episodi di vita vissuta, quando Beppe la applica al Grillo politico sembra – soprattutto sul finale – una pallida imitazione. Al contrario, gli va riconosciuto il dono di plasmare la vecchia Genova dov'è cresciuto con immagini vivide e molto divertenti: la sua educazione sentimentale al quartiere Marassi-San Frutteto è amara, malinconica e a tratti persino poetica, con iperboli scatologiche e perle di saggezza genovese, ovviamente in dialetto. Tra le parti più divertenti quelle in cui appare nei racconti la figura del killer Donato Bilancia, di cui da giovane era un grande amico. Nella rappresentazione scenica del proprio conflitto interno tra comico e politico, Beppe Grillo dimostra tutti i buoni sentimenti con cui si è imbarcato nell'avventura del Movimento Cinque Stelle. E mostra altrettanto bene, quando gli occhi gli si accendono di quella luce spiritata che l'ha reso tanto famoso, che quello che rifugge a parole – il suo essere leader, pure un po' messia – è in realtà il tratto caratteriale che tiene insieme lo spettacolo e anche la politica. Invece che convincere lo spettatore, come vorrebbe fare con il malcapitati in prima fila, lo show allontana dalla visione del mondo grillina. In certi passaggi, il pressapochismo dissimulato da candida utopia fa un po' di tenerezza (o, al contrario, fa arrabbiare parecchio, a seconda del temperamento). Anche quando enumera una serie di personaggi (Steve Jobs, il pilota di aerei a energia solare Bertrand Picard, Tesla Elon Musk e l'esperienza di Napster) è superficiale come una pagina di Wikipedia. Affibbia del genio o del cretino con una leggerezza esagerata e come se fosse un veggente che ha già la verità in tasca e sa chi scriverà la Storia e chi resterà solo un piccolo disonesto che non ha lasciato nessuna traccia nella magica rete. Per quanto Beppe Grillo sia bravo a guardare dentro se stesso e a mettere in luce tutti i suoi coni d'ombra e i suoi fallimenti, non sceglie mai un registro diverso dall'agiografia per raccontare la sua vita. Magari buffa e un po' paradossale, ma pur sempre un'agiografia. La fase del Grillo politico, essendo l'ultima, è quasi da super uomo di Nietzsche: l'uomo a cinque stelle è uno che ha vinto i limiti di quelli che rubano, di quelli che hanno bisogno di leader e di quelli che non vedono al palmo dal loro naso. La sensazione è quella un po' di essere presi in giro, durante questi passaggi dello spettacolo. Dall'autodenuncia di plagio fino all'ultimo sonoro "vaffa" rivolto verso a stesso insieme al pubblico ("vaffa" per il quale, da buon genovese che sta dentro i cliché, vorrebbe pure il copyright), più che Beppe Grillo sembra il Marchese del Grillo: lui è lui e noi sappiamo il finale. Nota negativa della versione su Netflix: la regia a volte perde ciò che viene mostrato sul maxischermo alle spalle del comico. Per di più l'immagine di Beppe Grillo proiettata, utile a teatro per rendere possibile la visione anche a chi sta seduto indietro, diventa per il telespettatore un fastidioso "effetto doppio": un Grillo a dimensione reale e uno gigantesco di cui si intuiscono solo i particolari. Un Grillo alla seconda. Decisamente, troppo.