Nella Parigi del 1910, un’anziana e nobile signora decide di lasciare il suo intero patrimonio in eredità ai suoi adorati gatti, e in seconda linea di successione al fedele maggiordomo. Ma la lealtà di quest’ultimo è solo apparente: accecato dal desiderio di ricchezza, abbandona i felini in piena campagna francese, sicuro che non sapranno mai ritrovare la strada di casa; ovviamente ignora che in soccorso di Duchessa – questo il nome di mamma gatta – e dei suoi tre cuccioli giungerà Romeo, un randagio intraprendente e pieno di risorse. Avventura parigina a tempo di jazz per questo classico Disney, forse non tra i più memorabili eppure amatissimo in Italia. Sarà per l’adattamento fantasioso che ha trasformato il gattone Thomas O’Malley in «Romeo, er mejo der Colosseo»? Modifiche a parte (curioso che il micino artista Tolouse sia diventato Matisse nella versione nostrana), Gli aristogatti soffre l’assenza di un creativo come Bill Peet – già responsabile del precedente ma più moderno La carica dei 101 – in fase di sceneggiatura, e la storia si riduce a una sequenza di gag e d’incontri con personaggi bizzarri, comunque ben caratterizzati nella migliore tradizione Disney (irresistibile la coppia di oche inglesi). Non si può negare, però, che il film sappia divertire con trovate comiche piuttosto ispirate e con le sue ottime canzoni, che colorano una vicenda abilmente collocata sui binari della pura allegria e spensieratezza, e fanno dimenticare la presenza di un cattivo, il maggiordomo, molto più maldestro che minaccioso, inadatto a stabilire un seppur minimo clima di tensione. Geniale l’idea dei gatti jazzisti (e decisamente bohemien): la natura stessa della musica jazz, randagia, anarchica, insofferente a regole che non siano le proprie, attribuisce all’accostamento un valore quasi metaforico.