Se c’è un titolo che a buon diritto può fregiarsi della definizione di cult movie, questo è certamente il caso de L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, autentica perla sci-fi apparsa nelle sale americane alla metà degli anni Cinquanta e destinata a ritagliarsi, dopo un infelice esordio al botteghino, un posto speciale nel cuore di critici e appassionati. Considerata oggi una tappa fondamentale nell’itinerario del cinema di fantascienza, al momento della sua uscita la pellicola dovette confrontarsi con un duplice ordine di difficoltà, legate per un verso al modesto budget a disposizione (talmente ristretto che il regista rinunciò del tutto agli effetti speciali, ripiegando sull’effettuazione di riprese in bianco e nero), e per altro verso alla concorrenza commerciale dei kolossal hollywoodiani e degli altri fanta-horror del periodo, i quali sempre più spesso facevano bella mostra di sé grazie al technicolor e al 3D. Nonostante questi limiti, L'invasione degli ultracorpi riuscì ad allestire una messinscena complessivamente rigorosa e di grande impatto, capace ancora oggi di stupire grazie a un’atmosfera carica di tensione e a un intreccio narrativo di prim’ordine. La vicenda del film, ispirata apertamente al romanzo Gli invasati (1954) di Jack Finney, descrive l’invasione della Terra compiuta da misteriosi baccelli extraterrestri in grado di replicare i corpi degli individui e sostituirli con delle copie perfettamente identiche agli originali, sebbene prive di qualunque traccia di emozione o sentimento. Il racconto della pellicola, piuttosto fedele alla versione letteraria, si svolge seguendo buona parte dei tòpoi classici del genere, presentando il tema della minaccia discesa dallo spazio, della natura vegetale delle creature aliene (dopo La cosa da un altro mondo, ma prima de L'invasione dei mostri verdi) e della placida cittadina di provincia che scopre all’improvviso di costituire l’epicentro di una terribile minaccia (ambientazione, quest’ultima, spesso sfruttata da molte produzioni a basso costo in luogo delle più onerose ricostruzioni sul set). Tuttavia, pur facendo ricorso a cliché collaudati, Don Siegel si dimostra abile nel costruire un proprio autonomo percorso cinematografico, contrassegnato da uno stile espressivo secco e asciutto e dalla brillante contaminazione di differenti registri (fantascienza, giallo, horror), col risultato di dar vita a una rappresentazione densa di fascino e di angoscia. Il messaggio del film, d’altro canto, appare decisamente critico e tagliente: l’invasione narrata nell’opera incarna un pericolo ben più feroce e spaventoso di qualunque altra aggressione aliena precedentemente ritratta, poiché gli ultracorpi insidiano l’uomo non solo dall’esterno, dal punto di vista della sua sopravvivenza materiale, ma soprattutto dall’interno, strisciando invisibilmente verso l’anima, il nucleo vivo e caldo della persona. Camuffati con astuzia dietro il volto rassicurante della normalità, i replicanti generati dai bizzarri baccelloni risultano mostruosi nella misura in cui, assumendo la conformazione esteriore dell’uomo, contribuiscono a svuotare quest’ultimo di tutti i sentimenti e le emozioni che lo rendono effettivamente tale. È in quest’ottica, dunque, che il lavoro di Don Siegel rivela la sua sconcertante attualità: benché sia stato spesso interpretato in chiave politico-ideologica, piegato alle esigenze di una propaganda di segno ora anti-comunista, ora anti-maccartista, il film intende piuttosto denunciare il rischio diffuso della spersonalizzazione, scagliandosi contro la perdita dei valori più genuini ed autentici dell’essere umano. L’appello al “non dormire”, ricorrente per tutta la visione, si fa metafora di una coscienza che deve mantenersi vigile ed attiva se vuole evitare di perdere sé stessa, di scivolare lentamente, inavvertitamente, e proprio per questo subdolamente, verso un’abulica concezione della vita, verso un’aridità del cuore che la renda indifferente a ciò che le accade intorno, a partire dal destino proprio e quello altrui. È interessante sottolineare, a tale scopo, come la conclusione della pellicola che oggi conosciamo risulti diversa da quella originariamente prevista dalla sceneggiatura: l’intenzione iniziale, infatti, era quella di trasformare anche il protagonista, il dottor Miles Bennell (interpretato da un ottimo Kevin McCarthy), in un replicante che avrebbe poi intimato allo spettatore, rivolgendosi direttamente verso lo schermo, «You’re next!» (Tu sei il prossimo!). I produttori, tuttavia, temendo che la scena sarebbe suonata eccessivamente scioccante per il pubblico, spinsero Don Siegel a una conclusione differente. Nel complesso, L'invasione degli ultracorpi si conferma anche a distanza di decenni uno dei capitoli più riusciti e affascinanti dell’intera storia cinematografica della science fiction: a fronte della sua delicata gestazione, il gioiello di Don Siegel dimostra chiaramente come l’ingrediente essenziale per una buona fantascienza risieda non nell’impiego di spettacolari trucchi visivi, quanto piuttosto nella capacità di indagare i problemi concreti dell’uomo e della società attraverso uno sguardo lucido e penetrante. Il risultato è un film che non cessa di coinvolgere e turbare, di scuotere e far riflettere. E certo non è un caso se i successivi tentativi di remake - compiuti con Terrore dallo spazio profondo (1978), Ultracorpi - L'invasione continua (1993) e Invasion (2006) - per quanto ben realizzati, non siano stati in grado di riprodurre la formula vincente dell’originale: proprio come gli ultracorpi si rivelano in grado di imitare le fattezze ma non il “cuore” dell’uomo, allo stesso modo l’essenza del film di Don Siegel rimane unica e inviolabile.