Mar dei Caraibi, Banco Chinchorro, gruppi di gabbiani gridano la loro fame contro la vastità del cielo messicano mentre una barchetta increspa la superficie piatta di un atollo: sono Natan, suo padre Jorge e nonno Matraca. Frutto di una notte d'amore in un'isola tropicale, Natan Machado Palombini è un bambino italo-messicano, residente a Roma con la madre Roberta, trascinato dal padre Jorge in un viaggio di scoperta attraverso segreti e abitudini della vita di mare. Tra pomeriggi di pesca e lunghe traversate oceaniche, il legame tra padre e figlio si fa più intenso, la pelle del bambino si tinge d'ambra come quella di un pescatore, tracciando così la rotta di un viaggio di risveglio fisico ed emotivo, un tenero rituale di passaggio d'esperienza, conoscenza e amore da una generazione alla successiva. Sembra aver trovato la cifra del suo cinema in Alamar Pedro González-Rubio, a cui farà seguire Inori e Icaros, altre due opere dai forti connotati naturalistici, “organici” per usare un suo termine. Direttore della fotografia, editor e regista, Rubio costruisce un film sensoriale rimanendo in bilico tra realtà e finzione, documentario e film, tratteggiando il delicato racconto di una vita lontana, selvaggia, attraversata da personaggi solitari e correnti di misteriosa poesia. Il film si concentra su due relazioni, padre-figlio e uomo-natura, ma grazie all'elegante fotografia che rende ogni inquadratura una composizione, mettendo ogni elemento in armonia con l'ambiente circostante, gradualmente la relazione tra paesaggi e personaggi si fa simbiotica, emotiva, fino a confonderne i confini. Nonostante i protagonisti interpretino se stessi e il regista messicano non sembri prestare molta attenzione all'intreccio narrativo, concentrandosi invece nel catturare l'intimità della quotidianità, le immagini e i suoni di Alamar possiedono una forza primordiale e una risonanza epica capaci di evocare viaggiatori come Robinson Crusoe e Santiago de Il vecchio e il mare. Jorge, il padre, il “tarzan dell'oceano”, chiama le cose col loro vero nome e non si affida che alla manualità per spiegare al figlio la semplice ma sfiancante vita del pescatore, mostrando la devastante fragilità di quell'ecosistema. Ma prima che il film si trasformi in una fantasia d'evasione verso l'Isola che non c'è, riesce a impartire una dura lezione sull'impermanenza e sulla perdita: come la passione dei suoi genitori, i giorni di Natan in paradiso sono contati. Alamar è un'opera pura, carica di fascino e fede per la vita, attraversata dalla vena scura di un imminente abbandono, come un nuvolone nero che pian piano si infittisce sopra le spiagge bianche a Sud del paradiso. È un film che non temendo gli assordanti silenzi della natura torna alle origini, di Jorge e Natan, del regista, ma soprattutto dell'uomo e della sua recente inclinazione a ricordarsi della natura solo quando deve sfuggire alla quotidianità.