
Nel 490 a.C. Filippide corre circa 40 km dalla città di Maratona sino all'Acropoli di Atene per annunciare la vittoria dei greci sui persiani. Questo celebre evento storico è scelto nel 1896, durante la prima Olimpiade moderna, come spunto per istituire una nuova gara di corsa, che diventasse simbolo dell'Olimpiade stessa: un percorso che partisse dal ponte di Maratona per arrivare allo Stadio Panathinaiko di Atene, per un totale di 40 km. Questa gara, fisicamente faticosa e carica di significati (come solo gli sport all'aria aperta sanno esserlo), ottiene da subito un enorme successo. La maratona conquista le strade di ogni nazione del mondo e per coprire la distanza storica, più tardi codificata in 42 km, vengono usati a riferimento i principali monumenti del mondo: questa corsa diventa (un po' come il ciclismo) il simbolo dello sport che attraversa le città , le campagne e quindi la vita di tutti i giorni. Ma questa gara, che pure per gli uomini non è certo una passeggiata, è interdetta alle donne. Almeno fino al 1967, quando l'atleta americana Kathrine Switzer si iscrive all'importante maratona di Boston con un nome da uomo e partecipa illegalmente. A gara iniziata, i giudici se ne accorgono e la inseguono cercando di strapparle prepotentemente la pettorina. Quelle immagini insopportabili diventano il simbolo di qualcosa di più grande e la corsa di Kathrine (che alla fine, riuscì comunque a tagliare il traguardo) rivoluziona non solo il mondo dello sport. Negli anni della contestazione, in cui le coscienze di molti erano micce pronte a prendere fuoco, Kathrine Switzer offre un nuovo sguardo sulle donne. Ma perchè la storia della corsa, della maratona soprattutto, è stata così costellata di difficoltà ? Lo spiega Pierre Morath nel suo documentario Free to run. Il regista e autore racconta le difficoltà di una gara storicamente pregna di significati, cui si aggiunge la fatica fisica che comporta. Non sono rari i casi di atleti (se ne parla nel film) che si sono sentiti male durante la gara, giudicata eccessiva per il fisico maschile e inadatta a quello femminile. E poi c'è la questione dello spazio: contrariamente alle più accreditate gare dentro gli stadi e nei circuiti, la maratona si corre fra le strade. Ecco allora che ai pericoli costituiti dalla vicinanza tra gli atleti e la gente e allo scandalo dei corpi al vento (femminili, ma anche maschili), gli atleti affermano il diritto di riprendersi lo spazio esterno. Del resto, cosa c'è di più liberatorio di una corsa all'aria aperta? Free to run, con onestà , racconta tutte le battaglie libertarie legate al successo della corsa come sport. Anche quando queste lotte sembrano diventare un puntiglio o mettono a rischio la salute fisica degli atleti. Pierre Morath (che già aveva raccontato una splendida storia di sport nel film Togo, girato nel paese africano durante i Mondiali di calcio del 2006, i primi a cui il Togo partecipava) gira un film che "corre" per il mondo — dal Brasile alla Cina, da Parigi a New York — per seguire gli atleti ma anche alcuni personaggi fondamentali nel dibattito sullo sport: come Noel Tamini, uno dei maggiori sostenitori dell'emancipazione della corsa; o Fred Lebow, ideatore della maratona di New York. E se è vero che in Free to run non si parla solo della questione femminile, ma più in generale dell'affermazione e codificazione del running (forse oggi l'attività sportiva più scontata che esista), va detto che le immagini storiche delle prime corridrici sono alcuni dei materiali più preziosi del documentario di Pierre Morath. Una perfetta metafora della corsa, in affanno, delle donne nel mondo.