Ciapani è una storia contemporanea. Ciapani è la malapianta del 2017, è Trapani senza marketing, come recita il sottotitolo: la città con tutte le sue storture. Chi la mostra è Gaston (Felice Capogrosso), un ragazzo che arriva dall'Argentina; mentre un altro, che di Trapani è originario, la racconta a un diario, manuale d'istruzioni delle assurdità locali. Perché, anche se gli altri non la vedono, i siciliani Ciapani la conoscono. Trapani è la «città impupata»: la faccia bella per i turisti, che si mostra appena si atterra in Sicilia. Mentre Ciapani è un mostro dal quale si vuole fuggire. Marco Bova firma questo docufilm con un ottimo rigore giornalistico, che non intralcia mai il ritmo della narrazione e che ha l'unico difetto di qualche sfumatura stilistica da correggere (jump cut troppo netti, regia un po' da mal di mare nelle interviste) oltre che dei cambi di capitolo troppo decisi. Ma nulla toglie allo spessore del racconto. La chiave interpretativa della città e del potere mafioso s'incardina su una dimensione, quella del lavoro, che è oggetto del desiderio di tutta la generazione di Bova, quella dei 30enni. Se il cinema ci ha abituati a vedere Cosa Nostra conquistare il potere con la violenza, qui la vedrete nascondersi dietro il buon nome di qualche imprenditore, dietro la falsa promessa di un impiego, dietro una “zona grigia” — collusa e non affiliata — pervasiva e appiccicosa. «Ciapani è il regno dello strapotere caduto della mafia» legge Gaston nel diario che gli ha ceduto l'amico. Il suo racconto non ha addosso la polvere del ricordo stantio: a Ciapani pure Cosa Nostra è senza marketing. Nessuna esasperazione del potere, nessun indugio ai fasti passati. A Castelvetrano, la città di Matteo Messina Denaro, l'ultimo dei boss, «hanno arrestato anche le sedie», come dice il boss intercettato. Eppure si percepisce ancora che in città per quell'uomo c'è una forma di sostegno che non si incardina più sulla paura, ma sul fatto che Messina Denaro in Sicilia, a casa sua, era rappresentato dal prestanome Giuseppe Grigoli, imprenditore a capo della Despar, azienda successivamente confiscata. Quando è subentrato lo Stato, la situazione economica dell'azienda era disastrosa tanto da portare al fallimento. Anche l'amministratore giudiziario, secondo un'indagine giudiziaria, era coinvolto. Avrebbe voluto vendere l'azienda e comprarla, sostiene un altro filone del processo, ci sarebbe stata ancora Cosa Nostra. Alle voci dei protagonisti degli avvenimenti si aggiungono quelle dei filosofi che inquadrano il discorso in un universo siciliano. Un filosofo-artigiano, il lavoratore del corallo Platimiro Fiorenza, e il filosofo-intellettuale Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista: nel documentario il ruolo di quest'ultimo è decrittare la sicilianità, il modo di pensare. L'ultimo capitolo è il più attuale. Quasi una parabola. È il rapporto inquinato tra la provincia di Trapani e la politica, tra l'impresa che sfrutta «l'industria della disoccupazione» riempiendola di corsi di formazione, e il potere. Il simbolo del documentario è un ex senatore, Nino Papania, sindaco di Alcamo, accusato di voto di scambio. Secondo la ricostruzione del docufilm, è solo un tassello di un sistema di promesse in cambio di derrate alimentari che avrebbe come vertice proprio Papania. L'ex senatore, per altro, ha modo di difendersi e di rimandare al mittente le accuse nel corso del film. Agli spettatori decidere come ne esce. Un fatto è certo: i guai giudiziari irrompono spesso nella vita politica e imprenditoriale senza marketing. Ne enumerano diversi i procuratori della città siciliana. Raccontano i casi passati in giudicato di imprenditori che hanno «slinguazzato con la mafia». Quello che non si poteva sapere è che proprio in questi giorni, con le elezioni amministrative, il docufilm si è fatto premonizione della cronaca. Le aggrovigliate vicende della città siciliana sono tornate con forza sulle pagine della cronaca nazionale, con un'elezione senza eletti. Leggete i giornali per crederci.