Félicité (Véro Tshanda Beya Mputu) vive a Kinshasa, dove lavora come cantante in un locale. La sua vita cambia per sempre quando suo figlio ha un incidente e deve essere operato con urgenza: ma mentre fa di tutto per trovare il denaro necessario, per il ragazzo le cose precipitano. Costretta a inevitabili cambiamenti, la donna incontra Tabu (Papi Mpaka), un uomo allo sbando, che diventerà per lei e suo figlio sempre più importante. Nonostante qualcosa della trama di Félicité possa ricordare Dancer in the dark di Lars Von Trier (una madre disposta a tutto pur di trovare i soldi per l'operazione di suo figlio) il film di Alain Gomis, regista nato in Francia ma originario di Guinea Bissau e Senegal, è un'opera colma di positività . Al centro della storia c'è una donna coraggiosa che, pur con le sue immense preoccupazioni, non smette mai di cercare una soluzione. Questa madre coraggio, che canta in un night club e che rimanda a numerose eroine del cinema, è davvero affascinante. Al punto che, forse complice anche la convincente interpretazione di Véro Tshanda Beya Mputu (incredibilmente al suo esordio sul grande schermo), avremmo voluto saperne di più su di lei e sulla sua storia. E invece il racconto del film appare talvolta troppo frammentario, con lunghe digressioni - certe lungaggini sulle esibizioni di canto non aiutano a tenere salda l'attenzione dello spettatore sulla storia - e salti repentini da un filo narrativo all'altro. In particolare, il personaggio di Tabu sembra contendersi la scena con la protagonista: al punto che le loro storie, più che intrecciarsi, finiscono per sottrarsi spazio a vicenda. Probabilmente l'idea era quella di offrire un ritratto a due facce della vita in Congo, dal punto di vista femminile e maschile. Ma i due personaggi subiscono in sceneggiatura un trattamento altalenante: non sono ugualmente protagonisti ma neanche l'uno riesce a fare del tutto da comprimario all'altro. Chi segue un po' i registi africani, specie quelli francofoni, sa che è facile trovare nel loro cinema alcune caratteristiche degli autori francesi. Ricorre l'eredità del Nouvelle Vague, con le attese interminabili che accada qualcosa; e, di recente, va molto di moda il realismo dei fratelli Dardenne. Non stupisce quindi che anche Alain Gomis renda omaggio - più o meno volontariamente - a entrambe queste suggestioni. Sebbene certe atmosfere da Due giorni, una notte siano piuttosto riuscite, solleva qualche perplessità l'idea di raccontare il Congo in stile dardenniano. Soprattutto in accostamento ai momenti più onirici della protagonista, in cui l'Africa emerge in tutta la sua potente presenza. E forse, è proprio il racconto di Kinshasa, tra le periferie malmesse e la poeticità dei locali notturni, la parte riuscita meglio del film. Sebbene in Alain Gomis sia presente ancora qualche incertezza su quale sguardo adottare, se quello documentario o quello lirico, emerge la volontà di un racconto africano. E per un regista che ha dichiarato di volere fare cinema nella sua terra di origine, piuttosto che in Francia, è lecito aspettarsi per il futuro ancora più autenticità .