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Made in Italy

23/01/2018 12:00

Andrea Desideri

Recensione Film,

Made in Italy

Un concept album sul grande schermo

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A distanza di vent'anni, Stefano Accorsi torna protagonista di un film di Luciano Ligabue. Stavolta veste i panni di Riko, emiliano onesto che vive una vita normale, sposato con Sara (Kasia Smutniak) e un figlio adolescente a carico. Improvvisamente le certezze della loro routine cominciano a vacillare: niente più lavoro, sentimenti e speranze per il futuro. La crisi di mezza età sorprende come un fulmine a ciel sereno, e Riko dovrà necessariamente rimettersi in gioco. Anche quando ogni cosa sembra spingerlo verso il fondo.


Tre è il numero perfetto, per questo Luciano Ligabue è tornato a dirigere un set per la terza volta. Dopo sedici anni. Alla stampa ha rivelato di aver lasciato passare tutti questi anni perché, fino a ora, non aveva una storia da raccontare. Con Made in Italy torna nei panni del regista e lo fa, come al solito, in maniera per niente scontata: questo film, infatti, non è figlio di una tradizionale sceneggiatura ma di un concept album. Le note di Luciano descrivono l'Italia, il rapporto tra il cantautore e il proprio paese. Anche se lui non si espone mai direttamente. Il suo alter ego, o meglio colui che riporta il Liga pensiero sul grande schermo, è Riko: sensibile, buono e onesto. Uno di quelli che hanno sempre vissuto al meglio delle possibilità, non sempre dando il massimo ma facendosi "andar bene tutto". Attaccato alla famiglia, ai grandi valori, all'amicizia, al lavoro.


Questo film è l'epopea del bene, della normalità, che nella modernità sembrerebbe non soddisfare molti. Colui che è più furbo ha la meglio e gli onesti finiscono nel dimenticatoio. Ligabue con Made in Italy ha voluto invertire la tendenza mettendo sul podio dei vincitori chi la vita se la suda e se la riprende, quotidianamente, lontano dalle luci della ribalta e dai privilegi. Ha raccontato le peripezie di una generazione adulta, non ancora anziana, ma non più giovane. Quel limbo anagrafico a cui basta poco per sentirsi fragile. Quindi un impiego non diventa solo utile, ma si plasma a ragione di vita; l'amore non è più quello giovanile - fatto di tremore e passionalità - ma può essere ugualmente fonte di appagamento. Proprio come l'amicizia, che diventa punto fermo e non soltanto una semplice occasione per riunirsi. Qualsiasi tappa della nostra esistenza è scandita da emozioni e Luciano Ligabue le lascia fiorire molto bene, attraverso una regia piuttosto intima: ricca di primi piani e chiaroscuri che rispecchiano luci e ombre della visione italica.


Un ritratto veritiero e umile degli adulti al nostro tempo, con tanta musica e persino qualche occasione per ridere. In questa giravolta di impulsi e stati d'animo, si affrontano temi profondi con spensieratezza: fine vita, testamento biologico, occupazione e prospettiva della società globalizzata, coppie di fatto (etero e omosessuali) che sono un'ulteriore declinazione del romanticismo. Ma anche piaghe sociali, come la ludopatia. Luciano Ligabue compone un puzzle che viviseziona lo Stivale punto per punto, mettendo in luce vizi, virtù e contraddizioni di un Paese che - malgrado tutto - offre ancora molti spunti per emozionarsi.


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