La voce fuoricampo di Oscar Ramirez (Jake Macapagal), appena prima che il membro di una gang spari un colpo a bruciapelo contro la camera e dia inizio a Metro Manila. «Se sei destinato a impiccarti, non affogherai mai», sussurra Oscar. Lui e sua moglie Mai (Althea Vega) fuggono dalla miseria delle risaie del Nord delle Filippine alla ricerca di un futuro migliore nella megalopoli Manila. Il traffico, le baraccopoli, i risciò, le prostitute, i clan, l'orrore della disperazione: il passaggio dalla vita agreste a quella metropolitana si rivela più duro delle loro peggiori aspettative e ben presto i loro sogni saranno soffocati sotto la fitta coltre di violenza che avvolge la città. La bella Mai intraprende la tortuosa via della prostituzione in un locale notturno, le giovani figlie l'aspettano nei camerini, mentre Oscar riesce a trovare un impiego ben pagato come agente di sicurezza per camion blindati. Stivali, uniforme, casco di Kevlar, una firma e Oscar comincia il “lavoro più pericoloso di tutta la città”, affiancato da Ong (John Arcilla), esperto collega dalla vena protettiva, che lo guiderà attraverso i segreti della giungla metropolitana di Manila. Ma non tutto è come sembra, soprattutto tra le tormentate strade della Perla d'Oriente. Dopo averci catapultato tra i surreali corridoi di un supermercato notturno nella black comedy Cashback e tra gli ambienti di una Londra dalle tinte horror in The broken, Sean Ellis decide di mettersi alla prova con una pellicola girata per intero nelle Filippine. Il regista inglese, qui anche sceneggiatore, produttore e direttore della fotografia, cattura le immagini disperate di una delle metropoli più affollate e complicate del pianeta senza traccia di cinismo, portando però con sé parte del buonismo e del sentimentalismo occidentale. Il rischio di questo tipo di film è lo stesso riscontrato da Danny Boyle in The millionaire: la semplificazione di una realtà sociale complessa che diventa stilizzazione, finendo poi per sfociare nello stereotipo. Diverso il discorso per Kinatay, del filippino Brillante Mendoza, che nel 2008 ci ha trascinato nel caustico vortice nella malavita filippina, plasmando un racconto intenso e credibile, senza dubbio supportato dalla sua conoscenza del luogo e delle dinamiche sociali. In Metro Manila c'è la storia universale dello spaesamento dovuto alla migrazione dalla campagna alla città, da un sistema morale dato dall'insegnamento degli anziani a uno dettato dall'esigenza, dai templi immersi nel verde dei monti del Nord alle insegne al neon “In God we trust” della città. La fotografia ben cattura il senso di alienazione dei protagonisti tra le pericolose strade di Manila e, accompagnata dalle delicate tracce ambient rock di Robin Foster, trasmettono il giusto sentimento di sospensione suscitato dalle disavventure dei personaggi. Metro Manila rimane un'opera ad alto contenuto sociale, dal ritmo adrenalinico e le venature realiste, una storia d'amore familiare scandita da scelte e sacrifici, colpa e riscatto, che offre l'occasione per prove attoriali credibili e coinvolgenti. A spezzare l'incantesimo c'è però un regista troppo distante culturalmente per poter infondere credibilità a certe situazioni e una storia già esplorata dal cinema in innumerevoli declinazioni socio-culturali: nemmeno un finale a sorpresa riesce a dissipare quel senso di conformismo che accompagna la visione di Metro Manila.