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Da Mayerling a Sarajevo

24/07/2017 11:00

Alessia Bertolino

Recensione Film,

Da Mayerling a Sarajevo

L'attentato di Sarajevo per raccontare la storia d'amore tra Francesco Ferdinando e Sofia

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Più di cento anni fa, nel 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando e la consorte Sofia vengono assassinati a Sarajevo: è l'inizio di quella che sarà denominata la Grande Guerra. Il regista Max Ophüls si lascia ispirare dal tragico evento ma la sua attenzione non è tanto rivolta alla storicità quanto alla travagliata storia d’amore dei coniugi. La componente romantica e sentimentale permea infatti l’intera pellicola, la cui realizzazione ha attraversato un iter tutt’altro che continuo e lineare. Ophuls, infatti, è tedesco ma di origini ebraiche: è perciò costretto a lasciare la terra natia nel 1933, trovando asilo in Francia per sfuggire al mostro nazista. È lì che nel 1939 iniziano le riprese del film, interrotte bruscamente a causa della guerra e ultimate un anno più tardi.


La vita privata e familiare della nobile coppia si mescola alle controversie politiche del tempo, ma queste non rubano mai la scena ai due protagonisti. La macchina da presa sembra fuggire dalle tensioni politiche rifiutandosi di potarle in primo piano, persino l’attentato è semplicemente accennato, celato all’occhio dello spettatore, quasi fosse un “finale aperto”. A interpretare Sofia, contessa di Chotek del Regno di Boemia, è Edwige Feuillere, già protagonista di Tutto finisce all’alba. Ancora una volta il regista le affida un ruolo assai impegnativo: Sofia è una donna distinta e di classe che si piega al matrimonio morganatico (rinunciando a tutti i titoli e ai vantaggi del marito) pur di rimanere accanto all’amato Francesco Ferdinando (John Lodge) che, a sua volta, la prende in sposa bocciando le dure imposizioni dell’imperatore e non curandosi del fatto che la donna appartenga a un rango inferiore rispetto al proprio. A causa del subbuglio storico-politico che imperversava negli anni della realizzazione del film e per via dell’attenzione riposta alla narrazione, la regia risulta dimessa e soppesata, con salti temporali e/o spaziali sanciti da dissolvenze e sovrapposizioni. Anche la recitazione non punta sull’esasperazione dei toni: indignazione e affetto vengono resi nella maniera più dimessa e pacata, senza mai strafare o uscire di bordi. Un plauso va certamente alla fotografia, a cura di Curt Courant e Otto Heller), strumento di identificazione del bene e del male, dello strapotere dei sovrani e degli sporadici barlumi di speranza. Il film, la cui divulgazione venne vietata in Germania, fu presentato ufficialmente solo nel 1945. Era una pellicola troppo pericolosa a quei tempi, portatrice di valori quali la tolleranza, l’armonia dei popoli, il rispetto delle culture.


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