Fare il sequel di un film a distanza di 20 anni (ma in certi casi anche di più) non è una grande idea, soprattutto se quel film è un cult generazionale. Operazioni così nascono con il solo scopo di fare cassa puntando alla nostalgia del pubblico; pellicole fini a sé stesse, fredde, superficiali e facilmente dimenticabili. Per fortuna vi sono eccezioni che confermano questa regola. Nel 1996 {a href='https://www.silenzioinsala.com/4343/jumanji/scheda-film'}Jumanji{/a} diventa una pietra miliare, segnando profondamente l’immaginario di fine secolo per l’uso massiccio di effetti CGI (al tempo all’avanguardia) piegati ai bisogni narrativi della storia, creando un punto d’incontro perfetto tra la old-school anni ‘80 (a tutti gli effetti il film è un racconto di formazione travestito d’avventura per ragazzi) e la tecnologia nascente. Il web si è infiammato quando, 21 anni dopo, è stato annunciato un sequel. E gli animi si sono fatti ancora più caldi quando diventa noto che il protagonista sarebbe stato Dwayne Johnson. Rimpiazzare l’eclettico Robin Williams - scomparso meno di due anni prima - con il monolitico The Rock? Sostituire l’iconico gioco da tavolo con una console elettronica? Ebbene, rispetto al mare di desolazione in cui spesso navigano questo tipo di produzioni pseudo-nostalgiche, {a href='https://www.silenzioinsala.com/4344/jumanji-benvenuti-nella-giungla/scheda-film'}Jumanji – Benvenuti nella giungla{/a} riesce a spiccare. Mantiene intatto lo spirito del film originario, esaltandone gli aspetti migliori con una cornice nuova, più attuale (anche se forse solo all’apparenza dato che i primi 20 minuti sono praticamente Breakfast Club) e in qualche modo anticipando il “caso cinematografico 2018” di Ready Player One. Senza troppi perché nella scena iniziale ci viene mostrato che il vecchio gioco da tavolo trasferisce la propria magia all’interno di un videogame e che, come nel film del ’96, esso risucchia al suo interno un ignaro giocatore. Stacco di vent’anni: quattro ragazzi più o meno problematici (il campione sportivo che non ha voglia di studiare, il secchione insicuro che gli fa i compiti, la tipa glamour e superficiale e quella timida e scontrosa) vengono mandati in punizione a riordinare una stanza-magazzino. Lì trovano la suddetta console; ognuno sceglie il proprio personaggio e continuano a giocare la partita iniziata dal ragazzo un ventennio prima. L’idea di non ricalcare il film precedente ma di ambientare l’azione all’interno del gioco (una giungla che sino a oggi avevamo solo immaginato attraverso i racconti di Alan Parrish) rappresenta la voglia di creare uno stacco netto rispetto al film originario. Un’altra ottima trovata è quella di trasformare i protagonisti in avatar, ognuno dei quali ha le proprie abilità (forza, combattimento, zoologia e cartografia) ma anche dei punti deboli. Il film si traveste perciò da gustosa pellicola d’avventura saldamente ancorata allo spirito di Indiana Jones e i predatori dell'Arca perduta, Il gioiello del Nilo e soprattutto All'insegumento della pietra verde. Il fatto stesso che i protagonisti abbiano dei “limiti” li rende decisamente umani, nonostante siano i personaggi di un videogioco, e li avvicina alla realtà molto più che un qualsiasi cinecomics in cui gli eroi compiono imprese impossibili senza mai farsi nemmeno un graffio, rialzandosi puntualmente sulle proprie gambe senza acciacchi. Il concetto stesso di morte, per quanto alterato dalla dimensione videoludica in cui ogni PG ha a disposizione 3 vite, è un cardine attorno al quale vengono costruite intere scene d’azione (non ultimo lo scontro finale con il cattivo di turno) senza però mai dimenticarsi del concetto di “se arrivo a zero muoio per davvero”. Ed è forse proprio questo che rende il film così umano. Il sottotesto resta sempre la crescita individuale: nel corso del film ogni ragazzo riesce a uscire dal proprio guscio grazie alle prove che di volta in volta deve superare nella giungla di Jumanji, da solo o (soprattutto) in gruppo perchè l’amicizia unisce e l’unione fa la forza. Frasi banali? Forse, ma è anche un concetto di cui, in un palinsesto bombardato di superumani ostinati e solitari, privi di radici o famiglie, abbiamo disperatamente bisogno per ritrovare quella scintilla di umanità che stiamo progressivamente perdendo.