Per tutti coloro che pensavano che le vie dello zombie-movie fossero finite, la scorsa stagione cinematografica ci ha regalato una nuova pietra miliare del filone: il coreano Train to Busan (2016), esaltante blockbuster a tema già in procinto di essere rifatto ad Hollywood. Un film diretto da Sang-ho Yeon, al suo esordio nel live-action dopo aver dato alla luce due cult del cinema d'animazione quali The King of Pigs (2011) e The Fake (2013) e preceduto di soli tre giorni in patria dall'uscita dell'animato Seoul Station, girato back-to-back. Veniamo così a conoscenza del diffondersi dell'epidemia (anche se le reali cause rimangono ancora sconosciute) quando un anziano clochard gravemente ferito, dopo il decesso, si trasforma in un morto vivente affamato di carne umana, che infetta chiunque venga da di lui morso. Il cuore narrativo si concentra su una giovane prostituta, il suo compagno-protettore e il padre della ragazza, scappata di casa da anni. Questi tre personaggi, separati nel corso degli eventi, cercheranno di riunirsi mentre nelle strade si scatena il panico e il contagio si propaga senza sosta. Partiamo subito dall'unico lato relativamente negativo dell'operazione, riguardante la qualità tecnica dell'animazione: seppur non priva di spunti affascinanti, è al di sotto di quella tipica delle produzioni nipponiche, con fondali fissi in cui le figure si muovono un po' scattosamente. A conti fatti però l'impatto visivo è un elemento puramente secondario in una visione dove la storia acquista suprema importanza, donando importanti spunti politici e sociali ad un contesto tipicamente horror, da cui reinventa con ispirazione situazioni e sviluppi. Sang-ho Yeon fa sua la lezione di George A. Romero e utilizza il genere per mettere in mostra le contraddizioni di un Paese (ma che si rispecchiano nitidamente in un quadro globale) in cui gli individui sacrificano ogni cosa sottoponendosi a massacranti turni di lavoro e in cui i poveri, vittime di queste situazioni, vengono visti come reietti. Non è un caso che uno dei personaggi principali sia proprio un senzatetto e che polizia ed esercito, pur di mantenere uno stato di sicurezza, non esitino a sacrificare civili innocenti. Seoul Station è perciò denso di profonde sfumature etiche ma si dimostra efficace anche nei suoi puri istinti orrorifici, con fughe a rotta di collo (da brividi e scenograficamente appagante, quella in cui la ragazza cerca una via di salvezza camminando in bilico su delle travi mentre orde di zombie cercano di raggiungerla) e una sana violenza che, pur smussata dall'essenza animata, è cruda e sanguigna al punto giusto. Il colpo di scena che ha luogo nella resa dei conti finale rivela un saggio lavoro di scrittura e l'amaro epilogo possiede una feroce e sanguigna brutalità che rispecchia magnificamente quanto visto in precedenza. Un'affascinante opera d'animazione in cui la ferale violenza di genere è magnificamente ibridata a un sottotesto sociale e politico tagliente quanto basta. La corsa per la sopravvivenza dei quattro principali protagonisti, in fuga da orde di morti viventi, appassiona con una grinta ferale e la raffinata e non scontata sceneggiatura fa chiudere un occhio (ma anche due) su una qualità tecnica appena discreta.