L’Esodo è un film che, senza tanti proclami, risulta capace di emozionare profondamente lo spettatore. Il merito è dell’ottima sceneggiatura, dell’interpretazione coinvolgente della protagonista e soprattutto del potere una storia vera, una brutta storia tutta italiana, che non può lasciare indifferenti, e che non teme di percorrere il sentiero tracciato dal neorealismo di Umberto D. Se il capolavoro di Vittorio De Sica raccontava con asciuttezza magistrale la discesa agli inferi di un pensionato statale che non riesce più ad arrivare alla fine del mese, il film di Ciro Formisano, figlio del suo tempo e dei suoi limiti – soprattutto di budget - non sfugge al richiamo del romance e del fatalismo, chiuso in una visione personale che non ambisce ad aizzare le folle ma vuole raccontare una situazione sociale, senza rinunciare alla commedia e un pizzico di fantasia. Siamo a Roma nel 2012. Francesca (Daniela Poggi), alla soglia dei 60 anni, si ritrova senza stipendio, pensione, né ammortizzatori sociali, pur avendo lavorato per tutta la vita, a causa della sciagurata legge varata dal Ministro Fornero. Francesca è un’esodata, una delle 30 mila anime che hanno visto negati i propri diritti dallo Stato, che avrebbe dovuto invece farsene garante. Una mendicante di Stato, come la definisce ironicamente un amico. Infatti la donna, pur di mantenere dignitosamente l’amatissima Mary, la nipote sedicenne a suo carico, si ritrova in ginocchio a chiedere l’elemosina a piazza della Repubblica a Roma, un luogo di passaggio turistico che unisce disperati e ricchi, tra hotel extralusso e locali alla moda. Per non mettere in imbarazzo la ragazza, le racconta di lavorare in una cucina come lavapiatti, ma una visita improvvisa e una giornalista senza scrupoli metteranno la donna di fronte al dolore della sua scelta. Fra flashback che spiegano il passato, una figlia drogata incapace di prendersi cura della sua piccola, e momenti di tenerezza malinconica, le vecchie cassette con la voce di Mary bambina che si pone tante domande, alcune della quali saranno sempre senza risposta, il film racconta la vita di Francesca ma anche i coriandoli di varie esistenze collaterali. Signora per bene ed elegante, piena di dignità , la donna dovrà lottare, letteralmente, per la sua sopravvivenza, scoprendo un mondo fatto di ruberie e solitudini disperate, ma anche atti di gentilezza inaspettati, da parte di innamorati o persone di buon cuore e senso etico. Francesca è una romantica, non crede ai film che raccontano il sociale, né che la gente possa provare interesse per storie noiose di mendicanti e sessantenni che non sanno cosa mettere in tavola. E per questo la sua disperazione, i suoi sorrisi, risultano credibili e rifuggono la facile autocommiserazione. Il nostro paese, per guardarsi allo specchio e riflettere su se stesso, ha bisogno sempre di più di storie come queste che sappiano denunciare, essere coraggiose o semplicemente, raccontare la verità . E la verità dell’informazione è quel collante sociale che in Italia manca e che permette di entrare con empatia e immedesimazione nelle vite degli altri ed accorgersi di quanto somigliano alla propria.