
Provate a chiedere a un qualsiasi appassionato di film d’azione/combattimento — un appassionato vero però, qualcuno che riesca a vedere un po’ più in là della saga di Fast & Furious — qual è il miglior action del nuovo millennio. Con molta probabilità otterrete una risposta univoca: The Raid. Rappresentò un piccolo e clamoroso caso quando fece il giro dei festival, riuscendo a strappare persino qualche applauso al Sundance e ridefinendo il concetto e l’estetica del cinema di combattimenti. Produzione indonesiana, il secondo lungometraggio dal gallese Gareth Evans (che in Indonesia ha trovato la sua terra promessa, dato che vi ha diretto tre film più il bellissimo corto Safe Haven in VHS 2) fa delle scene d’azione il suo cardine più solido. La maggior parte delle acrobazie sono affidate all’astro nascente Iko Uwais: il ragazzo ha compiuto il suo esordio a soli 24 anni nel primo film di Evans, Merantau, a cui è seguita la consacrazione di The Raid e un piccolo cameo in Star Wars: Episodio VII - Il risveglio della Forza (del tutto inutile, dato che non vengono sfruttate per nulla le sue doti atletiche). E proprio Gareth Evans ha fatto sì che Iko Uwais incontrasse un'altra coppia di suoi “protetti”, i Mo Brothers (registi del disturbante segmento L is for Libido contenuto nel primo ABS’s of Death), con i quali aveva collaborato per il succitato corto Safe Haven. Ovviamente tra registi e star scocca subito il colpo di fulmine. E qualche tempo dopo arriva al cinema Headshot. La trama è un pretesto per poter inscenare 120 minuti di combattimenti in un'escalation che non concede un attimo di respiro. Iko Uwais viene ritrovato mezzo morto su una spiaggia, con un vuoto di memoria che non gli permette di ricordare il proprio passato. Ricoverato in ospedale per guarire le proprie ferite, si innamora della bella infermiera che lo ha in cura; ma prima che l’idillio tra loro due possa sbocciare, il suo passato obliato torna a presentargli il conto. La trama non è nulla di particolarmente originale: il bel protagonista senza memoria; una storia d’amore, per mostrare il lato più umano; una struttura narrativa da videogioco, con i nemici che, più ci si avvicina al finale, più si fanno tosti, bizzarri e duri da mandare al tappeto. E proprio come in un videogioco arcade degli anni ’80, i personaggi sono caratterizzati quasi unicamente da tre componenti principali: vestiario appariscente, stile/arma di combattimento, battuta memorabile pronunciata prima di iniziare a menare. Ma giudicare un film del genere dalla trama è come cercare di capire se una torta è buona o meno solo leggendo gli ingredienti riportati sulla confezione. Perché Headshot è davvero un prodotto dannatamente cool, nel senso più tarantiniano del genere. I Mo Brothers – avvezzi all’horror e qui al loro banco di prova per quanto riguarda i film d’azione – infarciscono ogni combattimento con una sana dose di violenza a base di ossa rotte, arti recisi e secchiate di sangue; il tutto coreografato dal team di stuntman di Iko Uwais. Alzano l’asticella della cruenza visiva sino a valicare il confine dello splatter, ma riescono anche nel delicato compito di non sconfinare mai nel trash o nell’eccesso ridicolo (cosa che accadeva nel famigerato Riki-Oh: Story of Ricky, primo tentativo – era il 1991 – di coniugare arti marziali e splatter). Per questo i combattimenti fanno male al punto che lo spettatore si troverà più di una volta a sibilare di dolore, ma mai a ridere per l’assurdità della situazione. La regia non è controllata come quella di Gareth Evans e ci sono almeno 15 minuti di dialoghi in eccesso, ma i Mo Brother riescono comunque nell’intento di girare un film divertente, saturato da inquadrature pazzesche che sembrano tavole di un fumetto in movimento e combattimenti che risultano stremanti anche per lo spettatore. Una nota positiva che non va fraintesa: alcune scene sono talmente lunghe e complesse che anche dal divano di casa si riesce a empatizzare con lo sforzo fisico di Iko. Il cinema migliore è quello che riesce a trasmettere allo spettatore le sensazioni provate dal protagonista, anche se queste sono dolore e sfiancamento. Come se aveste corso per due ore sotto il sole di agosto.