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Il colore nascosto delle cose

15/09/2017 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Il colore nascosto delle cose

Silvio Soldini torna alla regia, Fuori Concorso a Venezia74

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Presentato fuori concorso alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia anche l’ultimo film di Silvio Soldini, Il colore nascosto delle cose, lungometraggio in sala dall'8 settembre distribuito da Videa.


Emma (Valeria Golino) è un’osteopata che ha perso la vista quando era solo una ragazzina. Incontra Teo (Adriano Giannini), un pubblicitario che passa da una donna all’altra senza farsi troppi scrupoli. Tra i due inizia una strana relazione: all’inizio per Teo è solo curiosità verso una donna affascinante dotata di una sensibilità superiore, successivamente la storia diventa qualcosa in più. Ma la paura di dover affrontare una relazione così complicata rende difficili le cose ad entrambi.


Silvio Soldini ritorna a parlare di cecità. Aveva iniziato circa quattro anni fa con un documentario, Per altri occhi, e anche in questo film più recente ritroviamo la stessa curiosità nel far luce su un mondo delicato come quello dei non vedenti. L’impianto narrativo però è differente: la cecità non rappresenta il cuore della vicenda, ma è uno strumento per ampliare un discorso sulle tante difficoltà nei rapporti umani, altrettanto invalidanti. Costruisce infatti i suoi personaggi principali per opposizione: il protagonista Teo è una persona di successo con una vita normale, eppure la sua esistenza è instabil; Emma lotta da anni con un grosso handicap che le rende meno semplice la quotidianità, eppure mostra una sicurezza disarmante nelle proprie azioni.


Il colore nascosto delle cose ha una struttura lineare, una sceneggiatura asciutta che riesce comunque a restituire un personaggio femminile affascinante e profondo. Le scelte registiche mostrano vicinanza alla sofferenza dei protagonisti: una sofferenza comune, più legata alle dinamiche di coppia che alle caratteristiche della protagonista femminile. La macchina da presa è sempre vicina, indulgente. Uno sguardo partecipe verso le fragilità dei personaggi e la loro voglia di superarle, anche se a livello tecnico l’uso delle inquadrature e dei movimenti è sempre scarno, minimale, come se si volesse lasciare spazio all’azione dei personaggi senza soffocarli con altri aspetti formali, anche quando le scene si caricano di dramma e salgono in intensità. Il tocco delicato è coerente con la voglia di mettere al centro appunto non la cecità, ma il tema dei propri limiti, specie quando rendono complicati i rapporti con gli altri. Tutti i personaggi hanno difficoltà, storie difficili, conti aperti col passato che impediscono di vedere il proprio presente in maniera serena. Bella la scelta di costruire un film che si svela progressivamente, che inizia in una stanza buia e prosegue, limite contro limite, a svelare soggettivamente i personaggi. Le scelte sensoriali sono interessanti: d’altra parte però, sul finale, la regia vira verso un epilogo facile e comodo, e la storia assume delle pieghe semplicistiche che stridono con una prima parte poetica e coerente con l’intento filmico di andare oltre l’apparenza delle cose. Il colore nascosto delle cose ha comunque un bellissimo respiro europeo e quando prevale la sua anima più onirica è una carezza per gli occhi dello spettatore che si perdono assieme ai protagonisti, tra il cambio formato e giochi di messa a fuoco, ritrovando, alla fine, un’onesta forma di pacificazione.


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