In questi giorni è stata presentata al Festival di Venezia Suburra - La Serie, la cui trama affonda le radici in intrighi malavitosi della Roma capitale. C’è molta attesa per questa produzione, la prima italiana ad approdare su Netflix, ma ovviamente su internet non sono tardate le polemiche. Alcuni commenti pescati dalla pagina Facebook della piattaforma streaming: «Possibile che gli italiani non sappiano fare altro che serie del genere? Poi l'originalità dei titoli veramente da premiare!»; «Mai qualcosa sulle meraviglie dell'Italia! Quando si parla di noi è solo per mafia e malaffare». Forse è vero che nel nostro paese da 40 anni, o anche più, vi è una larga produzione di film e telefilm a stampo malavitoso, ma magari quelle che si lamentano sono le stesse persone che adorano il primo Tarantino, da Le Iene a Jackie Brown, che racconta storie simili a quelle nostrane ma spostando l’azione da Roma a L.A. Il nodo cruciale sta nella cultura e nella storia del nostro Paese, dove è innegabile che vi sia un problema legato alla malavita organizzata, dal quale cinema e tv attingono da sempre, sviscerando l’argomento in ogni declinazione e sotto qualsiasi punto di vista. Il vero dramma è stato nel corso degli anni ’90 e 2000, quando siamo passati da prodotti di forte impatto e denuncia – La Piovra, ancor oggi la serie italiana più conosciuta al mondo, tradotta in oltre 80 paesi – a produzioni ridicolmente innocue (una su tutte, Carabinieri), per risollevarci solo nell’ultimo decennio con Romanzo Criminale - La Serie e Gomorra - La Serie. Perciò, se da un lato potrebbe essere vero asserire che l’argomento trattato è sempre il medesimo (che sia mafia, ‘ndrangheta o camorra poco cambia) dall’alto è innegabile che questa tradizione cinematografica sia intrinseca nel nostro DNA, affondando le radici nel nostro cinema di genere degli anni ’80 e ’70 dove registi - allora visionari - hanno gettato le basi per queste produzioni. I cosiddetti “poliziotteschi” maltrattati dalla critica dell’epoca, sono stati rivalutati solo quando, proprio a Venezia nel 2004, Quentin Tarantino ha presentato una retrospettiva a essi dedicata, Italian Kings of the B’s. Una volta osannati all’estero, questi registi sono stati presi in considerazione e valorizzati anche nel nostro Paese: autori come Enzo Castellari, Umberto Lenzi, Sergio Martino e soprattutto Fernando Di Leo, considerato a oggi il massimo esponente del cinema noir italiano e uno dei registi che hanno maggiormente influenzato la cinematografia Tarantiniana. Anche grazie a questa rivalutazione le nostre produzioni stanno iniziando a uscire dal pantano provinciale in cui erano rimaste bloccate per quasi due decenni. Ma questo è un ragionamento che probabilente gli haters non capiranno. Nel 1972 il regista pugliese dirige Milano calibro 9, primo capitolo della sua “trilogia del milieu”, a oggi considerato l’espressione massima del noir italiano, grazie anche alla magnifica interpretazione del suo protagonista, il compianto Gastone Moschin. Durante la “rivalutazione del genere” di cui sopra, l’attore è stato più volte intervistato in merito al ruolo di Ugo Piazza ma lui, quasi scocciato, rispondeva che quello era stato il suo solo «film di genere». Evidentemente, però, se si era radicato così tanto nell’immaginario collettivo, un buon motivo alle spalle ci sarà stato. Ugo Piazza è un criminale di mezza tacca, rilasciato dopo tre anni scontati nel carcere di San Vittore e subito abbordato dai suoi ex-colleghi. Viene arrestato per rapina il giorno in cui al suo boss, noto come L’Americano, vengono sottratti 300.000 dollari: anche a distanza di anni il malavitoso è deciso a scoprire se sia stato proprio Ugo a farli sparire. Rivisto oggi, a 45 anni di distanza, il film appare enorme: precursore sotto ogni punto di vista - tecnico, di sceneggiatura, di regia - di molto cinema italiano e internazionale. Se oggi aspettiamo Suburra - La Serie, prodotta da un colosso americano, forse un po’ lo dobbiamo anche a lui. Di Leo ritrae una Milano invernale e livida, perennemente schiacciata sotto un cielo plumbeo, nella quale si muovono personaggi le cui psicologie sono sempre ben delineate e chiare. C’è l’Americano, boss tutto d’un pezzo che molto ricorda il personaggio di Lawrence Tierney ne Le Iene, deciso a scoprire che fine hanno fatto i suoi soldi; c’è Mario Adorf, che interpreta uno scagnozzo sopra le righe, il solo a riuscire a tener testa al personaggio di Moschin; c’è la ballerina di go-go interpretata dalla stupenda Barbara Bouchet; ci sono il commissario e il vice-commissario di polizia, ognuno concentrato a perseguire i propri interessi più che la legge. E poi c’è l’Ugo Piazza interpretato da Gastone Moschin: un'interpretazione da Oscar. Granitico, impassibile, imperscrutabile. Appena uscito dal carcere viene presentato allo spettatore come un povero diavolo tormentato dai propri demoni del passato; un personaggio interamente giocato sul dubbio che sia stato lui a rubare i soldi dell’Americano. Piazza è sostanzialmente una figura immobile, trascinata dagli eventi, che non diviene mai il motore della storia, eppure riesce a calamitare l’attenzione ogni volta che compare in scena; una “faccia da noir” su cui tutto si focalizza. Può anche non aprire bocca: semplicemente lanciando uno sguardo con quei suoi occhi di ghiaccio, il personaggio di Gastone Moschin buca lo schermo e sembra sfidare anche lo spettatore più ostico. Se Milano Calibro 9 è divenuto il cult autoriale che è oggi probabilmente è anche (e soprattutto) merito della straordinaria interpretazione dell’attore veneto. Parafrasando la battuta finale – tra le più celebri – del film: quando vedi uno come Gastone Moschin, il cappello ti devi levare.