Ventuno anni fa ci lasciava, a soli 25 anni, Tupac Shakur (Demetrius Shipp jr.). La sua vita, così come la sua morte, è oggetto di critiche, indagini e ipotesi. La giovane età del rapper e la prematura scomparsa ne hanno fatto un simbolo, un’icona immortale: con il suo talento metrico e dialettico, si è battuto contro il razzismo cercando di distruggere barriere sociali e culturali. Al suo fianco, la madre Afeni (ex attivista delle Black Panthers) e i nemici/amici Notorious B.I.G, Digital Underground e il discografico Suge Knight. Tupac Shakur è quanto di più vicino possa esserci a una fede: un culto, più che un cult musicale. Il suo modo di comunicare, il suo atteggiamento provocatorio, ma leale, l’ha reso un vero e proprio simbolo a cui una comunità si è aggrappata. Nel 2016, in occasione del ventennale della sua morte, si è iniziata a considerare la possibilità di un biofilm su di lui. Nello stesso anni, però, se n’è andata anche Afeni Shakur (sua madre) che tutelava l’immagine del compianto artista: questa inaspettata dipartita ha posticipato di un anno l’uscita di All Eyez on Me. Ma questo film, oltre a ricordarci quanto manchi Tupac alla scena musicale mondiale (Rolling Stone lo ha annoverato nella lista dei cento artisti migliori di sempre), ci fa riflettere su quanto la sua figura sia stata distorta e – per certi versi – intaccata. Il rischio, quando si vogliono realizzare film biografici, è proprio quello di trasformare un omaggio in oltraggio. Il girato di Benny Boom è un ritratto negativo, piuttosto che romantico, di una carriera artistica che – al netto di incongruenze e sovvertimenti – ha emozionato più che sconvolto. Infatti, Afeni Shakur, fin quando è rimasta in vita, ha ribadito più volte quanto non volesse che suo figlio venisse dipinto come una marionetta. Tupac non è mai stato un visionario, né tantomeno un burattino facilmente gestibile su cui riversare frustrazioni. All Eyez on Me ha tutta l’aria di essere un prodotto figlio della spettacolarizzazione mediatica che questo film ha subito volontariamente: se n’è parlato tanto, è stato atteso per anni, al punto che le aspettative si sono alzate vertiginosamente. Sono caduti tutti quei paletti che la Tupac Shakur Foundation aveva posto e che la signora Shakur aveva avallato. Tupac, qui, viene dipinto come un catalizzatore di eventi che non è in grado di padroneggiare, quando invece faceva l’esatto opposto: è stato sempre vigile e attento sul suo materiale e soprattutto curava ogni singolo atteggiamento cercando di migliorare la sua presenza scenica di volta in volta. Questo aspetto, in 130 minuti di film, non emerge minimamente; complice una regia scialba fatta di lungaggini inutili, stacchi casuali che frammentano la narrazione, con una quasi totale assenza di ritmo. Inoltre, si denota qualche lacuna nella conoscenza del repertorio artistico di Shakur, soprattutto quando si pretende – abbastanza caparbiamente – di far eseguire dal vivo a Tupac una canzone uscita postuma: Hail Mary. Con tanto di coro in simultanea da parte della folla in delirio. Non siamo al cospetto di un’opera che passerà alla storia per la sua coerenza, ma almeno un po’ più di tatto nel ricordare una leggenda era lecito aspettarselo. Non a caso, infatti, John Singleton – a cui era stata affidata inizialmente la regia – passò il testimone a Boom per "divergenze creative”. A giudicare dal film, non si sono appianate affatto.