Luc Besson è senza dubbio il più grande sognatore europeo. Parigino, figlio di istruttori subacquei, durante tutta la sua infanzia e adolescenza gira il mondo con i genitori, coltivando il sogno di diventare un biologo marino specializzato nello studio dei delfini. Un sogno che si infrange quando un incidente lo priva della possibilità di fare immersioni. All’epoca ha diciassette anni e una seconda grande passione: il cinema. Chiusa una porta, quindi, si spalanca un portone: Luc si iscrive a una prestigiosa scuola di L.A. e, una volta rientrato a Parigi, inizia a bazzicare l’ambiente come aiuto-regista. Nel 1983 esordisce con Le Dernier Combat, film di fantascienza ambientato in un futuro post-apocalittico, girato in bianco e nero e privo di qualsiasi dialogo, salvo la parola “bonjour” pronunciata due volte in 90 minuti. È l’inizio di una carriera discontinua e atipica, ma a tratti anche folgorante e rivoluzionaria, in cui si alternano ambiziosi blockbuster di stampo hollywoodiano a produzioni minimali e indipendenti. Il tutto sotto l’insegna di un unico imperativo: prendere il concetto di cinema made-in-USA e trapiantarlo in Europa. Luc Besson fonda la propria casa di produzione (Les film du dauphin, per restare in tema di biologia marina e grandi passioni) e nel 1988 apre il Festival di Cannes con Le grand bleu; dopodiché parte alla conquista degli Stati Uniti prima con Nikita (rifatto qualche anno dopo dagli americani con il titolo Nome in codice: Nina) poi con Léon. Entrambi i film sono definiti da uno stile ben preciso: un montaggio serratissimo e una scrittura curata; un mix di azione, malavita e sentimenti. Il successo di critica e pubblico è unanime e internazionale, la sua fama è in ascesa e la sua ambizioea pressoché sconfinata. È in questo contesto che Besson mette in cantiere Il quinto elemento, il film più costoso mai prodotto in Europa (circa 90 milioni di dollari di budget) pensato appositamente per il mercato internazionale. Anno 2263. Il Male Supremo si dirige verso la Terra minacciando di distruggere la vita. La sola cosa che può fermarlo sono quattro pietre che simboleggiano gli elementi di acqua, aria, terra e fuoco; più un quinto elemento, un essere puro e senza peccato. È il 1997 quando il film esce nelle sale, rivelandosi sin da subito un prodotto fresco e atipico. Il merito è senza dubbio dovuto allo stato di grazia con cui Luc Besson orchestrò il tutto, fondendo in una sinergia perfetta azione, humor, fantascienza (ma anche una certa dose del fantasy più classico) e soprattutto sentimenti, scandendoli al ritmo di una colonna sonora reggae decisamente atipica e un montaggio serratissimo, a tratti quasi musicale. Per quanto assurdo possa sembrare Il quinto elemento è una delle opere più personali del regista francese, la cui visione di un futuro scintillante e cromato, fatto di colori pastello, lo ossessiona sin da quando da ragazzo leggeva i fumetti di Valérian e Lureline. Non è un caso che per visualizzare questo mondo futuro Luc Besson abbia chiamato alla sua corte due disegnatori: Jean Giraud, meglio noto al pubblico internazionale come Moebius, e Jean-Claude Mézières, creatore proprio dei fumetti di Valérian che lo stesso Besson porterà al cinema un ventennio più tardi. E sembrano uscite direttamente da un fumetto anche certe situazioni, intere sequenze: l’incontro da Zorg e Padre Vito Cornelius, quando il primo si ingozza con una ciliegia; o personaggi a dir poco sopra le righe, come Chris Tucker con il suo Ruby Rhod. Sì perché nonostante il budget faraonico e le ambizioni sfrenate, Il quinto elemento è un film che non si prende (e non va preso) mai sul serio. Per quanto riguarda il comparto attoriale, gli interpreti sono tutti di prim’ordine; volti noti oltreoceano, a rimarcare ulteriormente le aspirazioni internazionali. Abbiamo Bruce Willis, che rifà il personaggio di Die Hard ma nello spazio; Gary Oldman (che già aveva collaborato con il regista in Lèon) che interpreta un cattivo al limite del caricaturale; Ian Holm nei panni del sacerdote custode dei segreti dei cinque elementi. E infine vi è una Milla Jovovich ventenne e semi-esordiente, che riesce a incarnare perfettamente tutte le sfumature dell’Essere Supremo: sexy, vulnerabile, combattiva, ha rappresentato il sogno di un’intera generazione di nerd. In un certo senso Il quinto elemento rappresenta a oggi sia l’apice più alto della carriera di Luc Besson, sia un ideale spartiacque nella sua filmografia. Il suo film successivo fu Giovanna D’Arco, l’inizio di un declino artistico suggellato da una serie di opere discontinue e discutibili. Oggi, vent’anni più tardi, Besson ritorna alla fantascienza portando sullo schermo il suo sogno più intimo, la trasposizione di Valérian e Lureline, tornando a sfoderare la grinta di un tempo e firmando la regia del film più costoso mai prodotto in Francia. Se anche questa volta la sua ambizione verrà ripagata solo il tempo potrà dircelo.