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Black Sabbath: The End of the End

02/10/2017 11:00

Marcello Perucca

Recensione Film,

Black Sabbath: The End of the End

Ci sono musicisti che restano per sempre nella memoria e nel cuore di tutti

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Ci sono musicisti che restano per sempre nella memoria e nel cuore di tutti, soprattutto degli amanti di quel determinato genere musicale. È il caso dei Black Sabbath, storica rockband inglese capostipite dell’heavy metal. Quindi come non essere felici per l’uscita di un film che li immortala nell’ultimo, definitivo concerto della loro quasi cinquantennale carriera?


Si tratta di Black Sabbath: The End of the End, diretto da Dick Carruthers e distribuito da Nexo Digital, in uscita in Italia come evento speciale nell’unica data del 4 ottobre: il film riprende il concerto del 4 febbraio 2017 tenutosi a Birmingham, città dalla quale, nell’ormai lontano 1968, avevano mosso i primi passi Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward, quattro ragazzi inglesi che avrebbero dato vita a un genere della musica rock che avrebbe avuto in seguito numerosi e validi seguaci. È proprio nella città britannica, nota per l’industria dell’acciaio (della quale vediamo all’inizio del film le fonderie), che i Black Sabbath, riunitisi per l’occasione nella formazione originale con l’unica eccezione di Ward, hanno deciso di porre la parola fine alla loro straordinaria carriera.


Il film diretto da Carruthers li segue per tutta la durata del concerto, fra i più intensi della loro storia, alternando la performance sul palco con scene girate durante la seduta in studio che Osbourne, Iommi e Butler hanno voluto concedersi pochi giorni dopo il concerto. Per quasi due ore li vediamo scatenarsi, nonostante l’età – sono tutti sulla soglia dei settanta –, in una scenografia che definiremmo infernale: le fiamme si sprigionano sul palco, tra giochi di luci rosse e gialle, mentre la band inanella i maggiori successi, da Iron Man a War Pigs, sino alla chiusura definitiva con il loro brano forse più famoso, Paranoid.


La macchina da presa, passando freneticamente dall’uno all’altro, ne scruta i volti, i corpi, il sudore, gli sguardi. I sorrisi anche, che denotano il piacere di potersi concedere così al proprio pubblico in delirio, incitato ripetutamente a gran voce da Osbourne. Da questo punto di vista il film è decisamente coinvolgente. Ciò che manca, forse, è una maggiore indagine su quello che sono stati i Black Sabbath, sui loro rapporti interpersonali, sulle loro emozioni, sulle difficoltà che hanno dovuto affrontare e superare nel corso dei cinquant’anni di carriera. Qualcosa in realtà trapela qua e là, durante la seduta in sala di registrazione. Ad esempio Iommi parla del tumore che lo ha colpito e che è riuscito a sconfiggere; oppure Osbourne, voce e front-man del gruppo, interviene più volte su come sia stato in grado di lasciarsi alle spalle la dipendenza dal fumo, dall’alcol e dalla droga. Forse la seduta di registrazione può far pensare – e sperare – che la storia dei Black Sabbath non sia terminata del tutto. Magari in studio produrranno ancora qualche cosa. Di certo non si esibiranno più dal vivo. Perché, come dice Tony Iommi sorridendo: «Non voglio morire su un palco». Pertanto godiamoci questo ultimo loro concerto, abilmente ripreso e montato da Carruthers sotto la diretta supervisione dello stesso Iommi. Godiamoci la struggente versione di Changes che Osbourne ci regala in studio; incassiamo, senza prendercela più di tanto, quel vaffanculo con cui il vecchio Ozzy si accommiata dai suoi compagni e dal suo pubblico. È la fine della fine: i vecchi metallari si fermano qui!


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