La voglia di riscatto è al centro de Il Cratere, in quella costellazione debole, incerta e luminosa di luoghi che caratterizza le periferie campane e che dà anche il titolo al film. Il desiderio di un padre di famiglia che vuole un futuro migliore per sé e i suoi cari s’intreccia con il talento puro e grezzo della figlia, Sharon, cantante sopraffina. Il dono naturale della giovane diverrà il chiodo fisso di quest’uomo, che ha intuito da subito le possibilità economiche derivanti dalla musica neomelodica. Dunque, assume i comportamenti un padre-padrone disposto a fare qualunque cosa per far emergere artisticamente la figlia. Luca Bellino e Silvia Luzi, all’esordio nel cinema di finzione, confezionano un dramma campano che fa emergere una faccia del sud e dell’entroterra partenopeo poco approfondita: il risultato è un’indagine all’interno dei confini neomelodici che animano le strade di periferia; e la musica può dare agiatezza e popolarità a chi ne carpisce il senso e le opportunità. I registi passano al setaccio quel microcosmo industriale noto ai più, andando a ricercare le piaghe sociali più intime a cui presta il fianco. In provincia, spesso, dietro una bella voce ci sono giri d’affari imponenti – fra impresari e studi di registrazione – che animano il cuore pulsante del business al sud. Così per Sharon il talento si trasforma in una condanna: la certezza di non esser più una bambina, quasi donna, ma soltanto un oggetto nelle mani del padre. Niente conta, se non il canto e gli esercizi, non c’è più spazio per crescere. Non c’è più spazio per vivere. Questo capita quando, per troppo tempo, una famiglia è stata costretta a masticare leggi sociali a cui non ci si può sottrarre: se si è poveri, si può emergere soltanto grazie alla malavita; ma non tutti vogliono macchiarsi la fedina penale e la coscienza. Dunque, in ultima istanza, c’è l’arte: la possibilità di guadagnare, e anche abbastanza, col proprio talento. Quest’ultima prospettiva, con le sue luci e soprattutto ombre, viene messa in evidenza nel corso di un’ora e mezza di film che, pur essendo a tinte drammatiche, non abbandona il piglio documentaristico (confort zone dei due registi): inquadrature strette, che tratteggiano appena i volti chiamati in causa; e in ogni scena sembra di essere coinvolti proprio grazie a questa continua ricerca del particolare rispetto al generale. Pochissimi panorami, rilevanza massima alle fisionomie. Ritratti umani che passano per la raffigurazione dei vizi: dal fumo degli adulti ai lamenti dei bimbi, fino alle movenze delle ragazze che si credono già piccole donne perché qualche riflettore ha posato gli occhi su di loro. Il Cratere racconta le stelle (presunte) e le stalle tramite uno spaccato di vita di coloro che vorrebbero un mondo all’altezza dei loro sogni, non importa quale sia il prezzo da pagare. Tanta strada e la scelta oculata – per niente casuale – di ricorrere ad attori non professionisti. Nel girato emerge quella filosofia di vita che ha contraddistinto perennemente certi vicoli e anfratti con altrettante emozioni. La purezza di ogni interprete spicca come un vessillo d’avanguardia, che dimostra quanto, volendo, si possa fare cinema alla vecchia maniera: senza fronzoli e con parecchia sostanza.