Quattro personaggi ci portano all’interno della Repubblica Democratica del Congo, posto ricco di giacimenti minerari ma povero di diritti civili. Le vicissitudini di Mamadou Ndala – giovane comandante del 42esimo battaglione dell’Esercito Nazionale – si alternano a quelle del colonnello “Kasongo” (nome di fantasia che ha permesso a un alto ufficiale dell’esercito congolese di partecipare alle riprese) fino a guidarci nel conflitto portato avanti da un’orda di ribelli, passato alla storia col nome di M23. Sarebbe troppo semplicistico definire la vicenda del Congo al pari di una mera violenza dell’Occidente: è frutto di anni, secoli, di colonialismo in cui i più potenti hanno prosciugato risorse e portato via speranze. Daniel McCabe non solo sa offrire un ritratto puntiglioso e immanente della crudeltà, ma coglie una prospettiva dinamica e diretta fra presente e passato. Coniuga ciò che è stato con ciò che potrebbe divenire, a forza di soprusi e vessazioni. Emerge gradualmente lo spirito giornalistico del reporter, che ha guardato alla forma del documentario perché il materiale raccolto era tanto e intenso. L’aggettivo più calzante per This Is Congo è sicuramente "dirompente", poiché irrompe agli occhi dello spettatore confermando quelle certezze e quegli aneddoti che ognuno di noi si porta dietro in merito all’Africa, sovvertendo però ogni equilibrio. I fantasmi del passato, le sevizie sui civili, gli ideali strozzati in gola alimentano una “violenza ciclica” – concetto portante del girato – che, a distanza di anni (dieci da quando McCabe era inviato e vestiva i panni di fotoreporter), non trova risposte. All’assenza di motivazioni credibili e soddisfacenti seguono domande ficcanti che chi guarda si pone, cercando una sorta di mantra salvifico che, però, durante i titoli di coda lascia il posto allo smarrimento. Le ricadute storiche della colonizzazione occidentale, i complicati rapporti con il Ruanda, le responsabilità dell’attuale governo presieduto da Joseph Kabila sono crepe che vanno a innestarsi in una mappa speculativa fatta di ferite e sussulti in cui per forza di cose bisogna orientarsi. Ecco perché la “banalità del male” con McCabe ritrova linfa per rimarcare quanto abituarsi alla scelleratezza possa essere controproducente, pericoloso e destabilizzante.