Dal 2005 in poi, ogni anno a metà del mese di dicembre, viene pubblicata una Black List delle sceneggiature più apprezzate ma non ancora prodotte, stilata da una giuria composta da produttori cinematografici. Storie che per vari motivi sono rimaste chiuse in un cassetto ma che, quantomeno sulla carta, vengono giudicate meritevoli di essere trasposte sullo schermo. Nel corso degli anni questa lista ha portato alla luce diverse pellicole, quattro delle quali hanno addirittura trionfato alla notte degli Oscar: The Millionaire, Il discorso del Re, Argo e Il caso Spotlight. Qualche anno fa da questo cumulo è emersa Peste, storia di una ragazza dalla burrascosa vita familiare che inizia a tenere un videodiario. Un mokumentary quindi, che intreccia alla cronaca di vita della protagonista l’esplosione di una strana epidemia causata da un misterioso parassita. La sceneggiatura rimbalzò tra vari produttori sino ad arrivare nelle mani di Jason Blum, il quale ne acquista i diritti e l’affida al duo di registi Henry Joost e Ariel Schulman, con cui già aveva collaborato per Paranormal Activity 3 e Paranormal Activity 4. Nelle mani del duo la sceneggiatura cambiò radicalmente, mantenendo solo qualche spunto di quella originale. Venne stravolto anche lo stile narrativo: non più un mokumentary ma un più film classico, che unisce l’idea della pandemia dilagante a uno sfondo da teen-horror. Non sapremo mai se Peste fosse davvero un film valido: ciò che è arrivato sullo schermo è Viral e no, non è un buon film. Emma (Sofia Black-D'Elia) e Stacey (Analeigh Tipton) sono due sorelle: una ribelle e desiderosa di trasgressione, l’altra più riflessiva e calibrata. Stanno attraversando un periodo difficile a causa del divorzio dei genitori e, come se non bastasse, si ritrovano a dover fronteggiare da sole il dilagare di un’epidemia di misteriosi parassiti vermiformi che si insinuano nel cervello delle persone trasformandoli in una sorta di zombie a dir poco aggressivi. Di prodotti a tema zombie il mercato odierno è andato anche oltre la saturazione, sia al cinema che in TV, perciò per attirare l’attenzione del pubblico ci vuole un concept solido con almeno un briciolo di originalità. La trovata del parassita è buona e quantomeno si discosta dalla media mainstream, facendo prendere al film una piega diversa che lo fa ricadere nel sottofilone dei “film di contagio” piuttosto che in quello degli zombie-movies. Anche in questo caso però la strada tracciata da David Cronenberg in poi (penso a quel capolavoro seminale del sottogenere che è Il demone sotto la pelle del 1975) è impervia e piena di insidie in cui Henry Joost e Ariel Schulman rimangono ben presto aggrovigliati. Nella prima mezz’ora il film ha un'impostazione classica e non particolarmente intelligente: dopo aver presentato le protagoniste con i loro problemi, insieme a un paio di comprimari stereotipati, arriva la svolta di sceneggiatura. Una studentessa muore a scuola nel mezzo di una lezione. Sulla piccola cittadina del Texas viene quindi indetta una quarantena coatta, perciò cosa fanno gli adolescenti annoiati per passare la serata? Una festa, ubriacandosi e facendo sesso, cosicché l’epidemia possa propagarsi a macchia d’olio nel giro di appena qualche ora. Il resto del film si svolge come un assedio in cui le ragazze, barricate in casa, dovranno tener testa all’orda di infetti e stare ben attente a non venire contagiate a loro volta. La tensione è poca, le situazioni sanno di già visto, la regia non ha particolari guizzi di originalità salvo per la scena di “estrazione parassitaria” verso il finale. Si salvano la fotografia e le due attrici protagoniste, brave e con un più che discreto impatto scenico.