Thomas, aspirante scrittore, vive da solo in un piccolo appartamento a New York. Alle spalle, una famiglia problematica che ostacola le sue ambizioni. È innamorato di Mimi, sua compagna di college che sta per partire per la Croazia. Nel frattempo, fa la conoscenza di W.F. (Jeff Bridges), squattrinato scrittore fallito con cui si confiderà non appena scoprirà che suo padre nasconde qualcosa. Potrebbe quasi sembrare un eroe hornbyano il protagonista interpretato da Callum Turner: Thomas è un ragazzo così "buono" da essere quasi difficile, come specifica la sua migliore amica Mimi, di cui è da tempo innamorato e da sempre rifiutato. O, meglio, così buono da vivere una vita difficile. Perché, come sempre Mimi dice, Thomas è diverso da chiunque a New York, the city that never sleeps, popolata solo da persone corrotte più che malvage, impure. Persone che non hanno un problema al mondo ma che, a giudicarle da fuori, sono quanto di più distante da ciò che si vorrebbe essere nella vita. Non fanno eccezione i genitori del ragazzo: padre assente (di cui veste i panni un meraviglioso Pierce Brosnan) e immerso nel lavoro fino al collo; madre sull'orlo di una crisi di nervi, che pare sia la preoccupazione principale del figlio. Ed è qui che la matrice hornbyana si fa più presente che mai: perché The Only Living Boy in New York, col suo titolo rubato a quel brano anni '70 dei Simon & Garfunkel, pone l'accento sulle relazioni interpersonali che cambiano caratteri, rimodellano e smussano personalità , quando non le esacerbano o le disilludono, come nel caso di W.F. - un Jeff Bridges in un look inconsueto da scrittore malandato. Caso, o quasi, vuole che lo scrittore incontri l'occhialuto protagonista, e scatti la scintilla: nemmeno il tempo di presentarsi che i due già si ritrovano a condividere ricordi di giovinezza, esperienze amorose, tentativi di successo miseramente falliti, riscatti auspicati e mai ottenuti, passioni che ancora bruciano. Con l'introduzione del personaggio di Johanna, moderna femme fatale un po' troppo riciclata, la vicenda si sposta sull'evolversi della singola relazione fra lei (a sua volta amante del padre di Thomas), e il ragazzo. Spiace constatare, dunque, che da questo momento in poi si perda un po' il filo del discorso e ci si concentri su una storia caratterizzata da momenti poco credibili e che, nel complesso, in più punti sa di già visto: se è vero che Marc Webb si focalizza sulla materia che in lui suscita senza ombra di dubbio maggior interesse - l'abbiamo visto con il meglio riuscito (500) Giorni Insieme, l'abbiamo visto persino con The Amazing Spiderman, poiché la linea narrativa della storia d'amore fra Peter e Gwen pare delinata con più sicurezza rispetto alla maturazione dell'eroe, legata anche ai rapporti con i suoi nemici -, è altrettanto indubbio che il mosaico di persone e personalità che s'intrecciano. E in una New York di artisti falliti in contrasto con business-men di successo (non esattamente quella che chiameremmo una visione originale della metropoli, peraltro), vada a perdersi e a lasciare ben poco. Ci aspetteremmo una maturazione del protagonista, come in un film di formazione, a seguito di eventi che ne scombussolano l'esistenza monocorde, ma l'unica cosa che finisce per essere monotona è il film stesso, freddo e aggrovigliato in una matassa di clichés narrativi che finiscono per appiattire le vicende personali di Thomas, W.F, Johanna, madre e padre del ragazzo e le loro trasformazioni, modellate sulle loro interazioni continue. Perché W.F. decida di dedicare un romanzo (dallo stesso titolo del film) a questo Thomas, non così diverso da altri ragazzi newyorkesi e nemmeno tanto misterioso, non viene fatto comprendere, se non per la blanda giustificazione di un plot twist che lascerà ben pochi a bocca aperta. Non solo si trascura il contatto più rilevante che subentra nella vita del protagonista, ovvero un surrogato del padre invisibile e affaccendato nel suo mondo, ma lo si riesce persino a banalizzare, sottraendolo di una importante componente psicologica. Si rimane, insomma, a debita distanza dal conflitto di ognuno, sorvolando su fondamentali battaglie personali che dapprima sembrano insormontabili e dimenticando tutto in una risata, o una chiacchierata a Washington Square Park. Come se il dramma individuale servisse da pretesto, più che a stabilire il punto d'inizio di una maturazione necessaria, per iniziare a raccontare qualcosa, senza mai indagare. A dire qualcosa. Cosa, poi, non importa molto. Non esattamente quello che Nick Hornby, sicura ispirazione per Marc Webb, avrebbe deciso di fare.