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Spielberg

07/11/2017 12:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

Spielberg

Susan Lacy racconta Spielberg, un mito

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Cosa c'è dietro il volto di Steven Spielberg? Cosa c'è dietro il cineasta più famoso del mondo, dietro un nome che, da decenni, sul suolo di Hollywood grava come un macigno? Cosa c'è dietro l'opera indimenticabile di un uomo che una volta aveva solo le proprie ambizioni smisurate, uno sguardo sognante e la sua piccola cinepresa? 

Sono tutti quesiti cui risponde Susan Lacy con {a href=https://www.silenzioinsala.com/4643/spielberg/scheda-film}Spielberg{/a}, presentato alla dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma.


Con le immagini di Lawrence d'Arabia ha inizio il documentario e l'amore di Steven Spielberg per l'arte che rappresenterà il fulcro della sua vita. E non è un caso che l'opera di David Lean abbia un respiro epico e sia tanto poderosa quanto consapevole, al contempo, dello stretto e necessario legame con l'identità del suo protagonista e la delineazione totale della sua ricca personalità. Perché né qui, né nel cinema di Steven Spielberg, la meraviglia e il fantastico possono trovare spazio e credibilità se non raccontando storie di individui, di persone. Le immagini scelte da Lacy accompagnano le parole del regista che, in prima persona, racconta la propria passione smisurata partendo dalle radici: da ragazzo emarginato che rinnega le proprie origini ebraiche per vergogna (o paura), al conflittuale rapporto con un padre poco presente e una madre più amica che mamma, fino ad arrivare alle primissime fughe dalla realtà tramite i suoi primi film bellici amatoriali, realizzati grazie al montaggio di scene tratte da opere preesistenti.


Lavori artigianali e ancora acerbi che oggi, a distanza di decenni, ci paiono gioielli dal valore inestimabile perché presentano in nuce tutte le prodigiose capacità del regista che oggi conosciamo: l'amore per gli effetti speciali (all'epoca ideati con un budget pari a zero e scarsissimi mezzi) e per il "magico", l'amore per le idee e per l'essere umano, l'amore per l'arte che lo accompagnerà per tutta la vita. Abilità, quelle del giovanissimo regista di Cincinnati, che non passano inosservate. Il giovanissimo (non aveva ancora diciott'anni) Steven ottiene i primi contratti per la realizzazione di corti per la tv negli anni '60, e riesce presto a farsi finanziare un'opera prima: Duel, un compendio delle sue peculiarità e allegoria della sua vita al college. Ottiene, dopo aver girato il suo secondo road movie Sugarland Express, un budget stratosferico per il seguente film, Lo Squalo, che pone fine alla New Hollywood e sconvolge le regole del cinema, alimentando rivalità con autori e registi di calibro e fama persino superiore.


Fra questi non fa eccezione la cricca di amici registi (Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, George Lucas i più celebri) con cui passò quegli anni, condividendo assieme a loro i propri lavori e traendone ispirazione e preziosi insegnamenti. Ripercorrendo i momenti più rilevanti della carriera del cineasta, Lacy pone l'accento sugli eventi che furono fondamentali nella vita di Steven Spielberg e traslati in punti fermi nelle tematiche dei suoi film, siano essi eventi negativi (come il divorzio dei genitori e l'allontanamento del padre per quindici anni) o positivi. Come il matrimonio con Kate Capshaw (protagonista di Indiana Jones e il Tempio Maledetto) che, nel 1991, contribuì, a detta del regista, a mutare per sempre il suo cinema introducendo per la prima volta un vincolo con la realtà tangibile, quella lontana dal magico.


L'incisività del documentario, pertanto, è massima nel momento in cui punta il suo sguardo su questa evoluzione e sul suo trait d'union con la vita privata e sentimentale di un regista che, negli anni '70 e '80, è riuscito a farsi strada grazie a un cinema d'intrattenimento apprezzato dal pubblico di tutto il mondo, ma bistrattato da un certo tipo di critica che non lo considerò mai del tutto autoriale. Il riavvicinamento con la figura paterna giunge insieme a quella con l'ebraismo e si raffigura in un passo deciso verso un cinema più intimista, persino sperimentale (per la prima volta, in Schindler's List, Steven Spielberg utilizza la camera a mano) e maturo. Il regista dà prova di saper accattivare il pubblico e comprendere come nessun altro le sue proiezioni, i suoi desideri e le sue più profonde corde emotive, facendo di quest'inclinazione un dono unico e invidiabile. Viene messa in luce la sensibilità di un artista a tutto tondo che con la propria arte ha stretto un legame d'interdipendenza, una connessione simbiotica e viscerale, trasformando ogni film in un potenziale canalizzatore di tutte le proprie paure (la perdita, l'allontanamento, il distacco), di tutti i propri desideri (una figura paterna, una figura materna, la riconciliazione) e dei propri ideali, fra cui un patriottismo mai celato e mai nemmeno cieco.


L'evoluzione, il continuo rimodellarsi del suo cinema eterogeneo e straordinariamente variegato, il suo aprirsi a differenti finestre sullo stesso mondo fanno di Steven Spielberg un artista unico, forse irripetibile, sicuramente mai visto prima e neanche dopo, ma soprattutto l'unico regista vivente in grado di rendere autoriale il proprio cinema rimanendo sempre nelle vesti di solo regista, grazie a una comprensione dello spazio e uno sguardo dinamico che ha, e ha sempre avuto, dell'incredibile. Riesce così, anche grazie a questo documentario, davvero impossibile provare a immaginare cos'altro avrebbe potuto fare quest'uomo nella propria vita, se non questo.




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