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La ruota delle meraviglie

08/12/2017 11:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

La ruota delle meraviglie

Il ritorno a New York di Woody Allen

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Coney Island, anni '50. Ginny (Kate Winslet), moglie di Humpty (Jim Belushi) e madre di un bambino che alla famiglia non risparmia preoccupazioni di alcun tipo, ha da anni rinunciato al sogno di fare carriera come attrice. Vive ora un'esistenza monocorde tra le quattro mura del suo piccolo appartamento che affaccia dinanzi alla Wonder Wheel del parco divertimenti. Ben presto, però, nella sua vita irrompe l'imprevisto arrivo di due persone: la prima è Carolina (Juno Temple), figlia di Humpty, ora costretta a nascondersi nell'appartamento dei coniugi per sfuggire ad alcuni gangsters che la pedinano; la seconda è Mickey, il bagnino della spiaggia con il sogno di diventare scrittore, per cui Ginny comincia presto a provare ben più che una semplice attrazione.


Dagli anni Trenta della New York glitter in cui prende vita il trionfante Café Society, quella costellata di jazz club in cui i mondi di individui apparentemente distanti s'intrecciavano seguendo inimmaginabili rivoli, al cuore chiassoso di un luna park in declino nel pieno degli anni '50. Cambiano le epoche, i luoghi all'interno della medesima città, cambiano le storie e senza dubbio il modo di raccontarle, ma una cosa è certa: Woody Allen dimostra di aver ormai trovato i punti saldi del proprio cinema, tanto nelle vesti di autore (ritornano le concatenazioni di vite, gli amori e i tradimenti) quanto in quelle di regista.


E questo lo testimonia il rapporto simbiotico con i tecnici, fra cui spiccano i direttori della fotografia: stavolta affida volti, colori e luci della sua opera a Vittorio Storaro, tre volte premio Oscar (Apocalypse Now, L'ultimo imperatore, Reds) che pare aver offerto un non poco rilevante aiuto al cineasta nel delicato passaggio da pellicola a supporto digitale, proprio a partire da Café Society. Con La ruota delle meraviglie ciò che balza immediatamente all'occhio è il palpabile distacco che c'è fra l'estetica del "pre-Café Society" modellato sui toni caldissimi e iridescenti di Darius Khondji, autore delle immagini di Allen che si contano da Anything Else a Irrational Man (con sporadiche eccezioni), e gli abbaglianti gialli, i blu e i rossi tondi e cangianti di Storaro, che si alternano sfumandosi sulla scena e illuminando il viso di un'attempata Winslet che rimprovera il suo giovane amante come fosse un figlio.


Questa è solo una delle tante scelte artistiche che accompagnano l'ultimo film dell'autore newyorkese verso una teatralità mai osata prima. Pare quasi che sia proprio la collaborazione con il nuovo direttore della fotografia a guidare Woody Allen verso nuove prospettive: al di là di movimenti di macchina che in La ruota delle meraviglie disegnano eleganti piani sequenza (siamo lontani dalla regia essenziale degli anni '90 e dei primi 2000), al di là di una composizione di immagini che nulla e nessuno lascia fuori inquadratura e fuori fuoco, è l'anima stessa della protagonista Ginny, il tourbillon di eventi che da lei parte e con lei si ferma, a possedere qualcosa della tragedia greca di cui Mickey parla in tenuta da bagno. Una tragedia classica ibrida, a galla tra teatro e cinema, che porta sullo schermo una nuova figlia di Blanche, la Vivien Leigh di Un Tram che si chiama Desiderio (Elia Kazan è un'evidente ossessione del regista) che già in passato aveva ispirato la nevrotica Blue Jasmine.


La Ginny di Kate Winslet è vittima di una psicologia non dissimile, con le stesse aspirazioni artistiche inseguite per vanità, poi abbandonate lungo la strada e riposte in polverosi souvenir di una giovinezza andata, di cui ha goduto e che a ogni altra donna vorrebbe ora negare (nessuna eccezione fatta per la bionda Carolina). Tuttavia, se a Blanche la psicosi impediva di maturare una passione che fosse assoluta tanto nei rapporti umani quanto nel perseguire un obiettivo, Ginny i sentimenti li conosce bene, e ne arde a tal punto da corrodersi, giorno dopo giorno, tra i compromessi della sua vita. Un po' come il Chris di Match Point, ma senza la sua algidità, senza gli spettri dei suoi sensi di colpa e senza neppure un colpo di fortuna a mascherare il suo misfatto, di diversa natura ma non per questo meno grave.


Ed è tanto imponente la statura di un personaggio come quello suo, uno di quelli che da tempo non si vedevano e non si chiedevano a un cinema ormai povero di eroine tragiche (al netto delle donne di Lars von Trier), quanto lasciata al caso la delineazione di una controparte che sia all'altezza. Stavolta Allen non delega se stesso a un personaggio, come in Café Society, ma si frantuma in particelle che distribuisce a tutti i personaggi. Come se tutta la vena creativa dell'autore si fosse esaurita nella delineazione della sfaccettata Ginny, come se, al di fuori degli ambienti ovattati frequentati dalla middle-class che ben conosce, Allen si sentisse smarrito. Ai restanti personaggi si aprono due possibilità: essere un po' Woody (un bagnino con aspirazioni di scrittore) o essere uno stereotipo, e non c'è scampo. Un gangster, magari, o un marito violento e ubriacone.


E chissà che non sia questa la ragione celata dietro una narrazione che procede intatta, con qualche conflitto, sì (inevitabile se si gioca con una come Ginny), ma priva di grossi stravolgimenti. Si spera persino che quel colpo di scena, previsto entro la prima quarantina di minuti, possa celarne altri a catena. Eppure tutto fila liscio come l'olio. Ed è straniante constatare quanto la solitamente fluviale scrittura di Woody Allen comprometta, stavolta, la presentazione del background di questi protagonisti nel primo atto, soprattutto di Ginny, quando un primo piano stringe sull'attrice intenta a narrare il suo passato con un monologo costellato di espressioni pompose e poco credibili.


Piccole pecche che, tutto sommato, possono non sottrarre nulla alla bellezza di giochi di luci e rifrazioni che allo spettatore rammentano quanto La ruota delle meraviglie voglia essere teatro (e che potranno comunque risultare ampollosi, per qualcun altro), ma pecche che lo stesso Allen, in tempi d'oro, avrebbe certamente evitato. A costo di riscrivere tutto da capo.


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