Il terzo film di Colin Trevorrow è veramente uno strano ibrido. Fin da Safety not guaranteed, il regista si alterna tra la lavorazione di grossi blockbuster (Jurassic World e l'Episodio IX della saga di Star Wars, incarico, tuttavia, da cui è stato sollevato) e progetti intimistici e quasi invisibili. Il libro di Henry appartiene alla seconda categoria. Questi primi film di Trevorrow si sono mossi tra industria e spirito indipendente e sono stati in grado di attirare l'attenzione di una larga fetta di pubblico specializzato, ma non solo. Guidato dall'influenza immaginaria di Steven Spielberg, nel suo ultimo film, Trevorrow dimostra il suo grande debito nei confronti del regista di Ready Player One. Il libro di Henry è, prima di ogni altra cosa, un racconto di assenze e di storie oltre il normale che ci aspettano dietro l'angolo. L'undicenne protagonista è un piccolo genio che non tiene in considerazione le sue enormi potenzialità . Disegna tanto, trasforma i suoi numerosi progetti in creazioni effettivamente realizzate, studia poco, bada al fratellino e fa da genitore alla madre. Come se non bastasse, Henry dimostra anche un innato senso di giustizia, che lo porta ad essere visto come un piccolo cittadino modello all'interno della sua comunità di riferimento. C'è una cosa, però, che lo ossessiona in modo particolare: il ragazzino teme che una sua compagna di classe, con problemi nelle capacità di relazionarsi con gli altri, possa subire violenze da parte del padre. Henry si trasforma, quindi, in investigatore e dà avvio a una serie di azioni che avranno pesanti conseguenze per sé e per la sua famiglia. Ciò che rende Il libro di Henry uno strano ibrido è l'indecisione riguardo al tono da abbracciare e alla strada da percorrere. Tutta la prima parte del film aderisce agli stilemi del dramma spielberghiano. Il carattere totalmente sbalestrato di questa fase rasenta, a tratti, persino l'ingenuità . L'accumulo di situazioni mal sviluppate e di personaggi le cui motivazioni restano poco approfondite deflagrano pericolosamente l'equilibrio del racconto. Da un certo momento in poi, improvvisamente, il film assume le sfumature tipiche del genere thriller. Il repentino cambiamento di binario lascia interdetto lo spettatore e spezza irrimediabilmente la narrazione. La tela che Trevorrow stava costruendo viene forzata a causa dell'affastellamento di generi e linee narrative che non vengono mai ben amalgamate. Anche la regia e la fotografia, d'altronde, nella loro adesione all'estetica indie, sembrano più preoccupate dell'aspetto esteriore del film che di mettersi al servizio della coerenza del corpus narrativo. In tal caso, la bellezza formale finisce per privare il film della carica emozionale di cui un racconto del genere avrebbe necessitato. E non c'è nulla di più grave che costruire un dramma familiare senza riuscire a stimolare empatia né, tanto meno, identificazione spettatoriale. Insomma, nel corso di un anno, tra il fallimento de Il libro di Henry e la fine prematura della sua relazione con Disney/LucasFilm, Colin Trevorrow potrebbe aver gettato al vento quanto di buono fatto fino a quel momento.