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Downsizing - Vivere alla grande

19/01/2018 12:00

Marcello Perucca

Recensione Film,

Downsizing - Vivere alla grande

Il talento di Alexander Payne per una film che non mantiene le promesse

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Di Alexander Payne avevamo apprezzato Sideways, la divertente commedia su un addio al celibato celebrato fra i vigneti e le cantine della Napa Valley e, soprattutto, Nebraska, un delicatissimo on the road in bianco e nero di qualche anno fa. Logico quindi aspettarsi ottime cose da Downsizing - Vivere alla grande, ultima fatica del regista di Omaha, film d’apertura all’ultima edizione del Festival del cinema di Venezia. Purtroppo le aspettative sono in parte naufragate. Perché, se il film parte bene e pare anche divertente nella prima parte, a lungo andare assume toni moralisti che ne sviliscono le intenzioni e annoiano lo spettatore.


Downsizing - Vivere alla grande si apre con un prologo ambientato in un istituto di ricerca norvegese dal quale capiamo che siamo di fronte a una scoperta sensazionale che ci verrà svelata subito dopo, quando in un convegno di studiosi un flashforward ci rivela la scoperta di un procedimento per miniaturizzare qualsiasi organismo vivente, uomo compreso. La possibilità di rimpicciolire a 12 cm un uomo di un metro e ottanta di altezza potrà garantire la sopravvivenza del pianeta ormai al collasso per sovrappopolazione, inquinamento e sfruttamento energetico. Già una prima comunità di ambientalisti norvegesi ha deciso di farsi rimpicciolire per il bene dell’umanità, ritirandosi in un fiordo con la speranza di realizzare Utopia, la società ideale dove vivere in pace e armonia col mondo. Purtroppo, con il passare degli anni, la motivazione che spingerà molte persone sulla Terra a farsi miniaturizzare non sarà più la nobile causa dell’ambientalismo, bensì la possibilità di “vivere alla grande” (da cui il brutto sottotitolo italiano) ottenendo tutti gli agi e i lussi possibili spendendo somme davvero minime. Sarà questo che spingerà a rimpicciolirsi i coniugi Audrey e Paul Safranek (quest’ultimo interpretato da Matt Damon, la faccia perfetta per interpretare l’americano medio), oberati dai debiti e tuttavia desiderosi di avere la casa dei loro sogni nella piccola comunità di Leisureland (traducibile con “il paese dell’ozio”). Insomma un paradiso, quantomeno apparente, perché la favola offrirà risvolti amari.


Il film di Alexander Payne (che oltre a essere il regista è anche sceneggiatore insieme a Jim Taylor) è godibile nella prima parte, anche se il tema della miniaturizzazione dell’uomo non è un argomento nuovo al cinema e alla letteratura. Consente anche un approccio etico e morale all’utilizzo della scienza per scopi nobili e meno nobili (governi repressivi o dittatoriali miniaturizzeranno forzatamente i propri oppositori politici allo scopo di renderli inoffensivi). Tuttavia, col passare dei minuti la storia perde mordente nel tentativo – mal riuscito - di sviluppare troppi temi in contemporanea, lo sfruttamento ambientale e energetico, l’oppressione dei popoli, il problema dei migranti; questi ultimi, fra l’altro, nella città dei minuscoli dove tutti sono ricchi, continueranno a rimanere poveri, sfruttati e separati da un muro che ci ricorda tanto uno dei molti muri eretti allo scopo di isolare, non ultimo quello che Trump vuole installare fra Stati Uniti e Messico. Se poi aggiungiamo anche una vicenda d’amore con una profuga vietnamita senza una gamba, un vicino di casa di Paul godurioso e trafficante (non poteva che essere un serbo) e uno scambio di Bibbia nel finale, usciamo dal cinema con il sapore amaro che ci lasciano in bocca le storie per le quali le aspettative iniziali non vengono mantenute.


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