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Bone Tomahawk

08/02/2019 12:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Bone Tomahawk

Bone Tomahawk, ovvero "cowboy vs cannibali"

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Il western, ovvero il genere americano per eccellenza, ha radici vecchie quanto la stessa storia del cinema: il capostipite (ovviamente made in USA) è La grande rapina al treno, proiettato per la prima volta nel 1903. Dovrà trascorrere un altro trentennio, però, per arrivare all’epoca d’oro del genere, quando John Ford e Howard Hawks donano al grande pubblico autentici capolavori come Ombre rosse, Sentieri selvaggi e Il fiume rosso. Un’epoca che si è cristallizzata nell’immaginario collettivo grazie ai volti di Henry Fonda, Kirk Douglas, Glenn Ford e soprattutto il Duca John Wayne. Poi, negli anni ’60, siamo arrivati noi italiani a cannibalizzare il western classico, a masticarne gli stilemi aggiungendo la nostra proverbiale dose di “artigianalità” e un tot di violenza grafica che caratterizzava il nostro cinema di genere in quegli anni. Nascono così gli “spaghetti western”, un nuovo standard che si impone a livello mondiale grazie al mai troppo osannato Sergio Leone e che viene reso prolifico da una schiera di altri registi forse meno famosi, ma non per questo meno capaci. Basti pensare a Django di Sergio Corbucci, La resa dei conti di Sergio Sollima, I quattro dell’Apocalisse di Lucio Fulci, Keoma di Enzo Castellari o Mannaja di Sergio Martino.


Dopo un lungo periodo, a cavallo del Millennio, in cui il genere è quasi del tutto svanito dagli schermi, negli ultimi anni sta ritornando di moda. Non con pellicole epiche o gloriose che inneggiano all’epoca d’oro, bensì con prodotti sporchi, grezzi e incattiviti che rimandano proprio agli spaghetti-western. Bone Tomahawk unisce questo filone a un altro prettamente italiano (i cannibal movie) allestendo una trama asciutta che può essere facilmente riassulta come “cowboy vs cannibali”.


Quando la giovane moglie di Patrick Wilson viene rapita da una tribù di indiani, il marito chiede aiuto allo sceriffo locale, Kurt Russell, che imbastisce una spedizione di salvataggio: è noto infatti che quella particolare tribù sia dedita al cannibalismo.


L’esordio di S. Craig Zahler è a dir poco da applausi. Dal punto di vista narrativo la storia sembra scritta direttamente da Joe Lansdale (lo stesso regista ha citato il romanziere texano come una delle principali fonti d’ispirazione della propria carriera) per quanto riesce a fondere in modo omogeneo il genere western con quello cannibalico. I due filoni sembrano lontanissimi tra loro, ma in realtà non lo sono: il fatto che alcune tribù indiane potessero praticare cannibalismo è stato documentato a più riprese, rendendo quindi la vicenda del film storicamente plausibile; il tutto è infarcito con personaggi ben caratterizzati e sfumature al limite della commedia nera.


Registicamente invece, nonostante questo sia il suo debutto dietro la macchina da presa, Zahler riesce a dirigere un cast di stelle hollywoodiane come se fosse un veterano. Matthew Fox, Sid Haig, David Arquette, Patrick Wilson fanno tutti un lavoro egregio... ma la performance di Kurt Russell svetta sopra quelle del resto del cast. Curioso che il film sia arrivato al pubblico pochi mesi prima di The Hateful Eight avendo come protagonista lo stesso attore, con lo stesso look baffuto immerso nella stessa deriva del genere (anche il film di Quentin Tarantino, in fondo, è un omaggio agli spaghetti western che nel finale vira bruscamente verso l’horror sanguinario).


Nella tribù di cannibali, infine, è possibile rivedere una sorta di versione western di quella presente nel capolavoro del sottogenere Cannibal Holocaust. Più si avvicina il finale, più i rimandi a questo film si fanno sentire, culminando con una scena di dissezione che riesce a rivaleggiare con quella di The Green Inferno di Eli Roth. Un ottimo film per gli amenti del genere (o dei generi), che a una prima parte molto lenta e priva di musica fa seguire un’esplosione di violenza sanguinaria che soddisferà diversi palati.


E poi c’è Kurt Russell che fa lo sceriffo...


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