Per i suoi primi 20 minuti Alita: Angelo della battaglia è una lezione di cinema allo stato puro. Asciugato il più possibile da dialoghi e parole, sono le immagini potentissime e maestose a parlare, a far trascendere le emozioni oltre lo schermo, guidando lo spettatore dentro questa nuova dimensione. Emozioni che traspaiono dai gigantesco occhi da manga di Alita – una CGI perfetta, naturale e per nulla invasiva, che caratterizza immediatamente il personaggio senza farlo apparire forzato – colmi di stupore e meraviglia, come una bambina alla scoperta del mondo. E noi con lei. Alita è un robot trovato in una discarica, riparata e riportata in vita da un dottore dal cuore d’oro (un sempre eccellente Christoph Waltz) che le dona un corpo nuovo pur non riuscendo a restituirle i suoi ricordi. Priva di memoria, Alita si ritrova catapultata in una città (o forse sarebbe meglio definirli i bassifondi di una città) del XXVI secolo in cui non conosce nessuno e della quale non sa nulla. La sua meraviglia è anche la nostra mentre ci addentriamo poco a poco in questo mondo, accompagnati dalla mano delicata di un Robert Rodriguez in splendida forma, sotto lo sguardo paterno del demiurgo James Cameron. Perché, anche senza conoscere la lunga e travagliata storia della produzione del film, è lampante che dietro vi si celi Cameron, costruttore di mondi per antonomasia. Il regista ha cullato il progetto per un ventennio, riscrivendolo, affinandolo, rimandandolo, sviluppandone la tecnologia necessaria per poterlo portare sullo schermo nella maniera più credibile e realistica possibile prima di affidarlo nelle mani di un altro cineasta. Robert Rodriguez potrà apparire come una scelta azzardata, di sicuro per nulla scontata, ma in realtà forse è uno dei pochi registi ad avete tutte le carte in regola per poter dirigere un progetto del genere: filmmaker a tutto tondo – nel corso della carriera ha curato non solo regia e sceneggiatura, ma anche montaggio, fotografia, musiche, scenografie ed effetti speciali – interessato e pionieristico verso le nuove tecnologie: Missione 3D – Game over e Sin City sono due esempi abbastanza fondamentali. Ma, soprattutto, Robert Rodriguez è tanto abile nel dirigere scene d’azione, quanto sensibile nel raccontare lo stupore dei bambini. A livello visivo il film innalza ancora di più lo standard del fotorealismo della motion capture e dell’integrazione sui personaggi tra CGI e attori. Il risultato non è estremo come quello ottenuto da Cameron in Avatar, ma piuttosto appare come un esercizio tecnico, affinato e migliorato. Un discorso simile è valido anche per il 3D: ottimo, nitido, particolarmente efficace nelle scene d’azione. Le coreografie e i movimenti di macchina nei momenti action puntano tantissimo su questa tecnica – la battaglia tra Alita e Grewishka nei sotterranei della città e la partita a Motorball sono gli apici massimi – ma a conti fatti non appare mai “necessaria” come lo era (inutile negarlo, il termine di paragone è sempre quello) in Avatar. L’approccio ad Alita: Angelo della battaglia è straniante, proprio per il contrasto tra la tecnologia all’avanguardia messa a disposizione di una serie di scene davvero anticonvenzionali per un kolossal di questa portata. Sequenze molto intime, raccolte, introspettive; piccoli tocchi che mettono a fuoco i personaggi. Come quella in cui Alita si risveglia e prende coscienza del suo nuovo corpo. Oppure, di una dolcezza d'altri tempi, quella in cui la ragazza assaggia per la prima volta un’arancia. Forse potrà sembrare una trovata banale, ma quella scena è di una potenza disarmante per quanto un semplice gesto riesca a contestualizzare alla perfezione lo stato emotivo e mentale di Alita all'inizio del film. Rodriguez è bravo a saltellare tra i vari toni e, per la prima volta nella sua carriera, riesce a far confluire in un unico film le proprie due anime, sino a oggi tenute separate. Da una parte quella delle pellicole per ragazzi - la saga di Spy Kids - e dall'altra quella violenta e action che lo ha reso famoso da Desperado in poi, necessaria per coreografare i combattimenti e geniale quando si tratta d’inscenare mutilazioni. Sì, perché Rodriguez non rinuncia a mozzare arti, sfigurare volti, cavare occhi o decapitare persone: solo che le sue vittime sono cyborg e, siccome al posto del sangue perdono olio blu, il PG-13 è salvo! C’è anche una scazzottata da bar, una delle scene migliori del film (quella che più incarna lo stile di Rodriguez) con una parata di personaggi bizzarri e grotteschi... tanto che da un momento all’altro ti aspetti che vengano inquadrati i volti di Danny Trejo e Cheech Marin. Loro due non compariranno nel film, però tra make-up e ritocchi digitali fanno capolino un paio di altri “feticci” del regista texano (vi lasciamo il gusto di scoprirli) oltre a un clamoroso attore che, nell’aperto finale, appare a far presagire un inevitabile sequel. Speriamo solo che per vederlo non debbano passare 11 anni come tra Avatar e il suo nuovo capitolo, atteso per il 2020.