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Terra Rossa

02/04/2018 10:00

Andrea Desideri

Recensione Film,

Terra Rossa

Il trionfo della Natura in una terra dimenticata

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Passiamo la maggior parte del tempo a classificare la realtà, a rimarcare ogni differenza, impegnati a stabilire chi conta di più e, soprattutto, in base a cosa. La Terra, però, è una soltanto: nessuno sceglie in quale parte del mondo nascere e dove vivere. C’è chi, però, nel panorama delle casualità rischia di estinguersi, o meglio: di cadere nell’oblio. Proprio da qui parte l’ultimo lavoro di Diego Capomagi, Terra Rossa, dal colore dei paesaggi nella Valle dell’Olmo, a sud dell’Etiopia. In un punto dell’Africa Orientale si colloca Key Afer: agglomerato urbano ricco di argilla; famoso, fra le altre cose, perché si dice che il primo uomo potrebbe essere nato qui. L’umanità così come la conosciamo, secondo la scienza, prende il via da quest’universo indefinito e definibile al contempo.


Nel posto in cui tutto ebbe inizio, almeno per determinate prospettive, ogni cosa potrebbe terminare. Un popolo rischia l’estinzione e Diego Capomagi, in meno di un’ora, se ne domanda il motivo. L’Africa le ricchezze le possiede al suo interno, sono sotto gli occhi di tutti; eppure chi vi abita è costretto a lavorare sotto un regime che sottrae i terreni a chi li coltiva usandoli come pascoli, per poi rivendere ogni produzione alle multinazionali.


Terra Rossa racconta l’essenza stessa del plusvalore: l’importanza della forza lavoro nella manodopera, che sfocia successivamente nello sfruttamento da parte dei presunti padroni. Una logica che ritroviamo sui libri di filosofia politica, ci viene restituita con naturalezza in una rappresentazione artistica e rurale. Dietro distese verdi e panorami mozzafiato, si cela il disagio di uomini e donne destinati a scomparire fra superficialità e inganni di chi dovrebbe salvaguardarli. Quando si parla di terzo mondo, lo si fa sempre in maniera distante e miope, Terra Rossa invece conduce nei meandri del disagio. Dove pochi, pochissimi, hanno avuto il coraggio e la volontà di spingersi. Il risultato è un insieme di sensazioni nuove, che potremmo chiamare mal d’Africa: una nostalgia che ci ricorda che esiste un intero continente bramoso di equilibri e parità di diritti che, al momento, latitano. Eppure ci sono i sorrisi dei bambini: gli unici ancora ottimisti, perché conservano la purezza di chi ancora non è assuefatto alla banalità del male.


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