In Grecia, precisamente ad Atene, va in scena una versione postmoderna dell’Orestea di Eschilo. Come di consueto, gli spettatori cominciano a prendere posto per assistere alla rappresentazione. Poco più tardi, a seguito di un blackout, un gruppo di giovani armati sale sul palco e, scusandosi per l’interruzione, invita il pubblico a prendere il posto degli attori: lo spettacolo prosegue ma con dinamiche profondamente diverse. Il regista Yorgos Zois, con Interruption, intende solleticare lo spettatore interrogandosi sulla consistenza e l’utilità – ai giorni nostri – del teatro. L’intreccio narrativo della vicenda è un chiaro omaggio a Luigi Pirandello: infatti, nemmeno troppo velatamente, il film prende spunto da Questa sera si recita a soggetto. Zois mescola volutamente platea e attori in un unico brodo primordiale su cui il palcoscenico si sostiene, al punto da non capire più quale sia il confine (e il limite) fra attori, comparse e pubblico. Tale sovvertimento viene proposto violentemente, con l’ausilio di armi e blackout: variabili improvvise con cui fare i conti che spostano, bruscamente, l’attenzione di chi è coinvolto. C’è la volontà di insinuare costantemente dubbi, in particolare sul valore effettivo della catarsi: il teatro, oggi, insegna qualcosa? Una costante dicotomia fra rappresentazione e farsa compone il girato che dovrebbe stimolare l’adrenalina del pubblico, invece finisce per svilire qualsiasi intento: perenni ossimori elevano, in più di un’occasione, il progetto su vette irraggiungibili. Infatti si culmina con un finale fuori misura. La parabola iperbolica che caratterizza l’opera non fa altro che mettere carne al fuoco senza fornire risposte adeguate. L’operazione ricorda, in qualche passaggio, la teatralità di V per vendetta con risultati molto diversi: il concetto di gabbia, che può essere figlio della coercizione del potere, così come l’alienazione nella quotidianità , stavolta è parecchio stigmatizzato. Interruption fa uscire allo scoperto le cicatrici dell’universo teatrale sovrapponendole alle imperfezioni della collettività : un’idea abusata con l’aggravante di esser stata sviluppata, in tal caso, piuttosto superficialmente. La vicenda, infatti, è ricca di incongruenze che, di volta in volta, chi guarda è chiamato a risolvere. Viene tirata in ballo l’omologazione delle menti, a più riprese, senza, però, mai distaccarsi dagli stereotipi più conosciuti. Si annega in una prevedibilità che rende ogni cosa asettica, nonostante sia costante la caparbietà nel cercare di mantenere alta la tensione e il pathos. Un’opera partita sotto ottimi auspici che finisce con l’autodistruggersi per aver alzato eccessivamente il tiro. Il risultato sono cento minuti difficili da digerire. Yorgos Zois ha definito il film "complesso": forse è solo ricco di materiale interessante che, però, viene proposto in maniera confusionaria.