La mattina del 19 febbraio 1988 nei pressi del Tevere viene ritrovato il cadavere di un uomo ucciso con violenti e ripetuti colpi al cranio, legato, mutilato sul viso e sul corpo, avvolto in stracci e dato alle fiamme. Si tratta di Giancarlo Ricci, ex-pugile cocainomane e pregiudicato. Dati i trascorsi malavitosi dell’individuo, la polizia pensa subito a un regolamento di conti o a un’esecuzione a opera di professionisti: si scopre poi che, invece, il colpevole è il mite Pietro De Negri. Un uomo minuto, definito da tutti come innocuo, premuroso e gentilissimo, mosso da un amore smisurato per la figlia e per il suo negozio di tolettatura per cani che gli era valso il soprannome di Canaro. Da questo violento fatto di cronaca Matteo Garrone prende ispirazione per Dogman, film che segna per lui una sorta di ritorno alle origini – dopo l’incursione fantasy de Il racconto dei racconti, la critica allo show-business di Reality e il difficile adattamento di Gomorra – con una storia che ruota attorno al rapporto reciprocamente distruttivo e affossante tra due individui. Una variazione sul tema già affrontato sia in Primo amore (lì era una morbosa relazione affettiva) e ne L’imbalsamatore, pellicola della sua filmografia che forse ha più punti in comune con Dogman. Lo ricorda l’accostamento straniante dei due protagonisti (nel primo caso il viscido “nano di Termini” con il belloccio Valerio; qui il gracile Marcello con l’imponente pugile Simoncino) anche se in quest’ultimo film il contrasto è forse ancor più netto e violento. Da sempre il cinema di Matteo Garrone è costruito sulla fisicità dei personaggi che racconta, retto quasi esclusivamente dalle prove attoriali (anche se non sempre professionistiche) degli interpreti scelti. E Dogman non fa eccezione, reggendosi totalmente sulle performance ammalianti di Marcello Fonte ed Edoardo Pesce. Sin dalla prima inquadratura, in cui li vediamo comparire sullo schermo insieme, è lampante che Marcellino sia destinato a una vita di sottomissione a causa sì del suo fisico minuto e incapace di reagire, ma anche e soprattutto per il suo carattere sempre buono, positivo, incapace di autentiche cattiverie o rivalse verso il prossimo. Simoncino invece è l’esatto opposto, incarnazione estrema del bullo di quartiere: un energumeno violento e iracondo (caratteristiche accentuate dal suo smodato uso di cocaina), che non conosce sentimento alcuno, agisce sempre d’impulso e non ha rispetto per nessuno che non sia sé stesso. Matteo Garrone costruisce una storia lenta, che muove verso una deriva inevitabile e annunciata, in cui il progredire della narrazione avviene solo ed esclusivamente quando i due protagonisti entrano in contatto tra loro. Il tutto viene inscenato con una cura maniacale verso i dettagli più sottili (l’amore di Marcellino verso la figlia e verso i cani, culminante con la bellissima scena della “rianimazione”) ritraendo i personaggi che si muovono all’interno di un paese che sembra un non-luogo. Una periferia attanagliata da degrado e abbandono, fatiscente e macilenta come gli individui che la popolano, sia dal punto di vista fisico che da quello morale. Dogman costruisce un’attesa quasi straziante, interrotta da picchi di violenza (fisica, ma anche e soprattutto psicologica) che culmina nell’epilogo che – sebbene prevedibile sin dal momento stesso in cui lo spettatore si siede in sala – travolge per il suo impatto emotivo. I dieci minuti di applausi al Festival di Cannes, dove il film è stato presentato, non possono essere un caso: Dogman è probabilmente, a oggi, la summa massima della poetica di Matteo Garrone.