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A Beautiful Day

03/05/2018 10:00

Roberto Semprebene

Recensione Film,

A Beautiful Day

La violenza che vendica un’innocenza perduta

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Veterano di Guerra ed ex federale, Joe (Joaquin Phoenix) si guadagna da vivere per sé e per l’anziana madre come agente mercenario, nel contesto di una New York dove i fasti di Manhattan restano solo sullo sfondo. Nel suo passato c’è una storia di abusi e violenze, subite da lui e dalla madre a causa di un padre sadico, che ha lasciato profondi segni nella psiche dell’uomo. La violenza ha permeato la vita di Joe tanto da bambino quanto da adulto. L’ultimo caso sul quale è chiamato a lavorare lo porterà a salvare Nina (Ekaterina Samsonov), figlia di un senatore finita in un giro di prostituzione minorile dietro il quale si cela qualcosa di molto più grande, che segnerà la vita dei due protagonisti in modo indelebile.


La violenza che vendica un’innocenza perduta non è certo un tema nuovo per il cinema e i tanti riferimenti che in questo film si possono rintracciare ad altre produzioni dal tema simile sono ampiamente riconoscibili. Lynne Ramsay dirige quello che è a tutti gli effetti un thirller, ponendo grande attenzione alla forma e scegliendo di seguire Joe distanziandosi da un’estetica da film action per abbracciarne una più intimista, che tenga conto e riesca a esprimere i momenti di assenza, l’immaginazione, l’alienazione dell’uomo e, in parallelo e quasi sovrapponendola, quella di Nina. Il passato di Joe riemerge per frammenti, lampi di un passato - ora prossimo ora remoto - grazie al quale ricostruiamo le ragioni della grande affezione e pazienza dimostrate verso l’anziana madre, così come l’incapacità di uscire da un continuo loop di violenza, che ha origine nel ricordo e si espleta nel presente. La violenza di Joe è fisica e sporca: non è un killer, è un vendicatore e la sua arma è un martello, perché quella era l’arma del suo aguzzino, il modo di calmarsi e allontanare – di fatto rivivendoli – gli spettri del passato è infilarsi un sacchetto in testa e contare a ritroso fin quando si riesce a respirare…


A sottolineare la disperazione di Joe, messa in scena da un sempre intenso Joaquin Phoenix, è la musica: ritmi ossessivi, suoni melodici confusi con rumori disturbanti, che richiamano, insieme ad inquadrature, montaggio e loquacità dei personaggi, Drive, senza per questo fare di A Beautiful Day un clone del film di Refn. Il film risulta esplicito al limite del disturbante nel rappresentare morte, sangue e violenza, ma riesce a trovare una nota di poesia nei contesti in cui meno ce lo si aspetterebbe: una delle scene più interessanti vede Joe restare accanto a una sua vittima, a sua volta un assassino, costruendo un rapporto paradossale di intimità, quasi amicizia, sicuramente riconoscimento: nel momento della morte, il passato non ha peso, si sospende il giudizio e ci si trova vicini, quasi uniti di fronte alla fine della vita, ma anche della sofferenza che questa porta con sé. A Beautiful Day non è un film da serata spensierata e neanche un action movie adrenalinico: l’impianto costruito da Lynne Ramsay ha velleità da indagine psicologica, tempi di sviluppo del racconto dilatati tanto in termini visivi che sonori, una sensibilità attenta e impegnata, tutti tratti che rendono l’opera un prodotto complessivamente di nicchia, apprezzabilissimo dai cinefili, molto meno adatto per una visione occasionale.


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