Nell’ultimo decennio, circa, da quando The Walking Dead ha sdoganato la figura del morto-vivente al pubblico mainstream, siamo letteralmente sommersi da pellicole che esplorano questo tema in ogni declinazione possibile. Dall’horror più puro alla commedia brillante di L'alba dei morti dementi; dalle derive trash della Asylum ai thriller (psicologici e non); dall’action di World War Z e Resident Evil sino al dramma esistenziale di Contagious - Epidemia mortale. Sono arrivati persino a contaminare (è il caso di dirlo) le commedie romantiche per adolescenti con Warm Bodies. In questo panorama estremamente saturo è ovvio che portare sullo schermo, grande o piccolo che sia, un prodotto a tema non-morti anche solo vagamente originale è a dir poco difficile. Eppure ogni tanto capita. E molto spesso, quando ciò accade, la Midnight Factory non si lascia sfuggire nulla, importandolo anche sul nostro mercato nazionale. Come accaduto qualche mese fa con il sud coreano Train to Busan (bellissimo) e ora, nuovamente, con Deserto rosso sangue, traduzione meno evocativa dell’originale It stains the sands red. A scrivere e dirigere il tutto vi sono i Vicious Brothers (ovvero Colin Minihan e Stuart Ortiz) che cercano di reinventare un altro sottogenere horror dopo il discutibile ESP - Fenomeni paranormali e quel piccolo gioiello di Extraterrestial. Come ogni zombie-movie che si rispetti, anche Deserto rosso sangue è un film estremamente semplice in cui si intrecciano due anime differenti: da un lato quella dell’horror classico (qui sapientemente rivisitato), dall’altra il metaforone - nemmeno troppo celato - sulla crescita personale/presa di coscienza del protagonista. Alla vigilia di un’epidemia zombie – presentata con una bellissima panoramica sulla Strip di Las Vegas completamente distrutta – una stripper viaggia in mezzo al deserto insieme al suo ragazzo. L’auto si ferma nella sabbia, il ragazzo muore male dopo una manciata di minuti (poco importa, tanto era odioso) e lei si ritrova in mezzo al deserto, con delle zeppe vertiginose ai piedi e uno zombie instancabile, perennemente alle calcagna, bramoso di divorarla. Ambientazione inedita e un incipit narrativo tanto intrigante quanto rischioso da portare in scena: una donna, uno zombie e tanta sabbia per 90 minuti. La cosa bella è che il film, finché insegue queste premesse come il morto insegue Brittany Allen, regge benissimo, azzardando alcune soluzioni davvero poco banali (il tampax su tutte). La location sterminata e desertica – dove non c’è cibo, né acqua, né tantomeno un riparo dal pericolo – fa il resto, amplificando il senso di frustrazione e sconforto che dilaga nella protagonista. I problemi inziano proprio quando il film cambia registro e alza le ambizioni: trasforma lo zombie nella metafora dell’ostacolo da superare e ci aggiunge una componente psicologica/drammatica che stacca troppo rispetto alle premesse iniziali. Un cambio di tono che, anziché iniettare nuova linfa al film, lo appesantisce e lo allontana dallo stereotipo di b-movie poco pretenzioso. Intendiamoci: Deserto rosso sangue è assolutamente godibile, soprattutto se si considera la ristrettezza di mezzi e budget a disposizione, e la sua virata improvvisa di tono non è per forza un male; anzi soddisferà più di un palato. Semplicemente tradisce le premesse dei primi 50 minuti: tutto il giudizio dipende da quanto lo spettatore riesca ad accogliere questa manovra.