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La terra dell'abbastanza

05/10/2018 11:00

Monica De Simone

Recensione Film,

La terra dell'abbastanza

Un racconto di formazione sulla perdita di innocenza di due ragazzi come tanti

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Mirko e Manolo sono due amici che vivono alla periferia di Roma. Due ragazzi come tanti, compagni fraterni di mille avventure la cui vita semplice e scanzonata cambia una sera quando, per sbaglio, investono il pentito di un potente clan criminale. Inizialmente spaventati dall’accaduto i due, spinti dal padre di Manolo, approfitteranno della (involontaria) uccisione dell’uomo per guadagnarsi il rispetto del clan e un ruolo all’interno dell’organizzazione criminale.


La terra dell'abbastanza presentato nella sezione Panorama al Festival di Berlino 2018 e vincitore del Nastro d’Argento 2018 per la categoria Miglior Regista Esordiente, è il primo lungometraggio di due fratelli registi e sceneggiatori romani: Damiano D'Innocenzo e Fabio D'Innocenzo. Non è un’impresa facile definire il genere al quale appartiene La terra dell'abbastanza. Pur condividendo ambientazione e tematiche con un certo cinema crime in continua ascesa nel panorama cinematografico italiano, la pellicola in realtà offre una rilettura originale e personalissima dell’italian gangster movie. La narrazione sfugge ai luoghi comuni del racconto di periferia e malavita evitando tutti rischi del “già visto”. Il percorso dei protagonisti non ha nulla di affascinante o accattivante: Mirko e Manolo compiono i loro passi in un ambiente criminale squallido tra case diroccate e luoghi desolati. La periferia semideserta è teatro di una realtà in cui non c’è possibilità di redenzione o salvezza, una terra di nessuno che ingoia i suoi abitanti trascinandoli verso l’inevitabile baratro. Un luogo/non luogo in cui i protagonisti si muovono come automi cercando invano di riscattarsi da quell’ “abbastanza” che pesa come un macigno.


La struttura del film delinea le tappe di un racconto di formazione che focalizza l’attenzione sul percorso emotivo dei personaggi, sulla perdita di innocenza di due ragazzi come tanti che, pur non desiderando di entrare a far parte del mondo della criminalità, al momento opportuno non sapranno dire di no alla possibilità di svoltare. Una svolta che ha il sapore dei soldi, della droga, del potere, del sesso. La centralità della storia di Mirko e Manolo e il carattere intimista del film si traduce in scelte formali sobrie e a tratti neorealiste. La macchina da presa si incolla ai volti dei protagonisti, segue ossessivamente i loro gesti, coglie e riporta ogni minima espressione. Non registra mai il superfluo ma esplora il necessario.


La violenza non è ostentata perché mai protagonista. Gli omicidi sono quasi sempre fuori dal campo visivo o rimangono sullo sfondo. La fotografia e il montaggio si muovono nella stessa direzione preferendo l’essenzialità alla ridondanza, la sottrazione all’eccesso. A dare voce a due figure complesse, tragiche ma mai descritte come vittime delle circostanze, Andrea Caperzano (già protagonista dell’interessante Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni) e Matteo Olivetti, al suo primo ruolo cinematografico. I due interpreti riescono a conferire ai personaggi un’aura di profonda umanità e cupa disperazione anche quando le loro azioni rivelano una freddezza e un distacco inaspettati e a tratti incomprensibili. Ad affiancare i due attori un inedito Max Tortora, nel ruolo dolorosamente grottesco di Danilo, il padre di Manolo, e Luca Zingaretti che incarna perfettamente la schizofrenica personalità del boss Angelo che alterna momenti di magnanimità a scatti di disumana violenza. Intensa l’interpretazione di Michela Mancini nel ruolo di Alessia, la madre di Mirko, una donna sola e senza mezzi necessari per reagire alla vita. La terra dell'abbastanza è un racconto coraggioso, specchio di una violenza che non ha nulla di glamour ma che riflette la miseria di un grigio e profondo vuoto dell’esistenza.


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