Approcciarsi a un film horror che duri sopra le due ore è sempre richioso. Spesso – per non dire sempre – questo genere gioca su ambiguità, suggestioni e soprattutto sulla tensione narrativa; dilatare il minutaggio non è mai una buona idea a meno che tu non sia William Friedkin o Roman Polansky, che con L’esorcista e Rosemary’s baby hanno entrambi sfondato il muro dei 130 minuti. Ari Aster, però, non è nessuno dei due: è un esordiente, che con Hereditary - Le radici del male debutta alla regia di un lungometraggio dopo una lunga gavetta di corti. Aster è ambizioso, lo si capisce sin dalla prima inquadratura: una lenta carrellata che unisce finzione e realtà in uno dei tanti ambienti in miniatura che la protagonista del film Ellen (miniaturista, appunto) sta costruendo per allestire la propria mostra personale. Aster ha voglia di dimostrare che nel 2018 è ancora possibile realizzare un horror che sia mainstream ma anche d’autore, e a giudicare dalle critiche giunte da Oltreoceano pareva che avesse colto nel segno. Hereditary - Le radici del male, presentato al Sundance lo scorso gennaio, è stato acclamato come «l’horror più folle degli ultimi anni» o «L'Esorcista di questa generazione» (frasi che spiccano sul poster promozionale del film). Ma se è innegabile la preparazione tecnica del regista, sul piano narrativo – che in fin dei conti dovrebbe essere il vero centro nevralgico di ogni pellicola – risulta non essere altrettanto impeccabile, lasciando a più riprese spazio alla perplessità piuttosto che a terrore e angoscia. La famiglia Graham è in lutto per la morte della nonna. La figlia Ellen (una magistrale Toni Collette) attraversa una serie di stati d’animo contraddittori a causa del rapporto conflittuale che aveva con la madre ormai defunta. Poco tempo dopo il funerale, i Graham vengono colpiti da una seconda tragedia ed Ellen sprofonda in una totale disperazione dalla quale cercherà, con ogni mezzo, di uscire. Ma in casa iniziano a verificarsi strani accadimenti. Come già anticipato, il comparto tecnico è impeccabile. Fotografia, montaggio (formidabili gli stacchi notte/giorno), movimenti di macchina, composizione dell’inquadratura, attenzione maniacale ai dettagli che disseminano qua e là indizi premonitori su ciò che accadrà. Non stona nemmeno il progredire di una narrazione lenta, a tratti quasi rarefatta, suggellata da alcuni dialoghi davvero potenti che mettono a nudo i sentimenti e gli stati d’animo (tutt’altro che semplici) dei protagonisti. Insomma, per la prima metà del film non vi è davvero nulla da dire: bravi tutti a portare in scena un dramma familiare dilaniante che cerca di mettere il più possibile a disagio lo spettatore, riuscendoci a più riprese. Una sorta di metafora sulla rielaborazione personale del lutto e sull’inevitabilità di un destino già scritto. I problemi di Hereditary - Le radici del male arrivano nella seconda metà, proprio quando la narrazione dovrebbe ingranare. Principalmente il film inizia a zoppicare quando cerca disperatamente di depistare lo spettatore nel tentativo di convincerlo che stia assistendo a una storia a base di spiriti e possessioni per poi ribaltare le carte nel finale. Getta inidizi qua e là ma non approfondisce nessuno di essi, apparendo così superficiale e culminando in un epilogo che (sebbene molto suggestivo, di questo si deve dare atto ad Aster) risulta frettoloso, fine a se stesso e soprattutto svuotato da qualsiasi impatto emotivo. Tutto ciò al netto di alcune contraddizioni logiche e di coerenza dei personaggi. Il difetto principale è, però, la gestione del tono narrativo. Dalla cupezza del dramma familiare il film scivola a più riprese (non ultima, una morte abbastanza imbarazzante verso l’epilogo) nel ridicolo involontario, fatto di risate che scuotono la sala, mandando in frantumi la tensione. E se gli spettatori ridono in un momento poco opportuno, ossia quando in realtà non ci sarebbe proprio nulla da ridere, vuol dire che il film ha fallito nel suo intento.