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Cabal

18/07/2018 10:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Cabal

Nonostante il flop al botteghino, un film che conserva elementi estremamente affascinanti: un cult tra gli appassionati

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Dopo aver diretto negli anni ’70 un paio di cortometraggi sperimentali, lo scrittore inglese Clive Barker decide di alzare il tiro e cimentarsi alla regia di un lungometraggio. Il film in questione è Hellraiser, adattamento del suo romanzo Schiavi dell’Inferno, inaspettato successo sia di critica che di pubblico: un incasso di 15 milioni di dollari solo negli USA a fronte di un misero budget di appena un milione. Nel frattempo Barker seguita a scrivere, pubblica altri due romanzi e nel 1990 decide di tornare dietro la macchina da presa adattando per lo schermo proprio uno di quei suoi nuovi libri: Cabal. Il protagonista della storia è Aaron Boone, un ragazzo tormentato da incubi in cui visita la città di Midian, un luogo sotterraneo popolato da mostri. Ne è talmente ossessionato che decide di cercarla e quando finalmente vi giunge scopre a sue spese che i suoi non sono semplici incubi, ma visioni. Quella di Cabal è una storia più complessa rispetto a Hellraiser, intrisa di un sottotesto religioso non indifferente che richiede una trasposizione ambiziosa per rendere giustizia al materiale di partenza. Ma non è solo il piano narrativo a dover essere curato, ma anche e soprattutto quello visivo, denso di mostri e creature e luoghi immaginifici, tanto che il progetto venne definito «Il Guerre Stellari del cinema horror».


La Morgan Creek (la stessa che aveva prodotto Inseparabili di David Cronenberg) stanzia 12 milioni di dollari e mette Barker sotto contratto con l’intento di trarne una trilogia; ma nonostante i migliori auspici, le cose andarono ben presto alla deriva. Morgan Creek voleva girare un film senza eccessi, il che costrinse il regista a limare molte scene gore e di sesso. Barker consegnò un primo montaggio di 145 minuti, ma gli screen test andarono male e la produzione gli impose di rigiare molte scene e l’intero finale. Anche così il film risultava essere troppo lungo. Morgan Creek allora licenzia Barker, taglia pesantemente il suo montaggio sino a ridurlo a 100 minuti e lo reintitola Nightbreed (anche se da noi in Italia resta Cabal).


Ciò che arriva in sala è un film modesto che si eleva appena sopra il rango di b-movie. Eppure, nonostante il flop al botteghino (nemmeno 9 milioni in USA), conserva degli elementi estremamente affascinanti, che negli anni gli hanno fatto guadagnare lo status di cult tra gli appassionati. Innanzitutto la storia, che come accennato in precedenza altro non è che una rivisitazione barkeriana della Bibbia: Aaron Boone (come Aronne, figlio di Mosé) deve morire e resuscitare per poter guidare il suo popolo nella lotta contro il mondo esterno che li vuole perseguitare. Per risorgere come vecchio saggio (una sorta di Giovanni Battista) dovrà sottoporre Aaron a un rito di passaggio (una sorta di battesimo) per far scendere su di lui la benedizione del “padre dei mostri” Baphomet. Un’altra intuizione geniale di Barker è quella di affidare proprio a David Cronemberg il ruolo di antagonista, figura inquietante e ambigua che probabilmente è anche il solo mostro del film. In ultima battuta la componente visiva: già con i Cenobiti di Hellraiser Barker aveva dimostrato di saper portare sullo schermo personaggi dal forte impatto (e fascino) scenico; ma se nel suo film d’esordio gli attori sepolti sotto un’accuratissimo make-up erano solo tre, qui lo spettatore ne perde presto il conto.


La scena in cui Lori si addentra nei sotterranei di Midian è una vera e propria discesa negli inferi, resa magistralmente sullo schermo da una carrellata di mostri. Un freak-show che è un tripudio di trucchi ed effetti prostetici artigianali che danno vita a una sequela di creature affascinanti, bizzarre e dal design diversissimo l’uno dall’altro. Un inno al lattice e alla gomma che hanno contraddistinto questo tipo di film per tutti gli anni ’80 e che raggiunge probabilmente il suo apice in questa produzione, facendone il glorioso epitaffio prima che l’era digitale si avventasse sul cinema. Nel 2015 è uscita in blu-ray la Director’s Cut di 124 minuti curata dallo stesso Clive Barker, che riavvicina il film alla sua visine originaria, includendo molte delle scene che approfondiscono la psicologia e le motivazioni dei personaggi (soprattutto quello di Lori, la ragazza di Aaron) e ripristinano quel finale che la Morgan Creek aveva imposto di cambiare.


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