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Il ragazzo più felice del mondo

13/09/2018 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Il ragazzo più felice del mondo

Una commedia un po’ surreale a opera di Gianni Pacinotti, in arte Gipi

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Presentato a Venezia nella sezione Sconfini anche l’ultimo lavoro di Gianni Pacinotti, in arte Gipi, amato fumettista pisano che negli anni ha realizzato diversi cortometraggi e nel 2001 ha esordito con il lungometraggio L'ultimo terrestre. Il ragazzo più felice del mondo, questo il titolo della pellicola, è una commedia un po’ surreale tratta da una storia vera. Racconta la storia di un ragazzino che a 14 anni manda una lettera a Gipi per manifestargli apprezzamento per il suo lavoro e chiedergli un disegno ricordo, da fan. Nulla di strano, se non fosse che questo ragazzo in realtà da oltre 20 anni ha mandato la stessa lettera da fan a quasi tutti i più noti fumettisti italiani. Inizia così un viaggio per scoprire la verità, che Gipi vorrebbe trasformare in docufilm. Ma la Fandango non ne è entusiasta.


Davide Barbafiera, Gero Arnone e Francesco Daniele, che interpretano loro stessi, come altri colleghi fumettisti, sono i coprotagonisti che accompagnano Gipi in questa impresa: quella di realizzare un docufilm che racconti la storia di un ragazzo - probabilmente - disturbato. In realtà la volontà di Gipi non è smascherarlo, ma farlo commuovere, incontrandolo assieme ai numerosi disegnatori che ha contattato nel corso degli anni.


Il ragazzo più felice del mondo è un film su un film, o meglio sulla sua lavorazione. Che però sul finale assume i tratti di un road movie, facendo molte deviazioni. Non parla del ragazzo più felice del mondo, bensì racconta il disagio di voler mettere in scena una storia, un’idea, e le difficoltà di trovare finanziamenti, di riuscire a realizzarla senza scendere a compromessi o, peggio, senza essere oggetto di critiche altrui. Il problema è che nel raccontare questo disagio il film fa consusione. Non c’è una pista narrativa unica e quando si tenta la strada del metacinema, il racconto appare forzato. I meccanismi di ironia utilizzati sono poi ridondanti, perché reiterati per tutta la pellicola e incentrati esclusivamente sulla troupe.


Sebbene non manchino momenti esilaranti e aperture a momenti di riflessione, è anche vero che le analogie e le metafore sono sicuramente più comprensibili a chi fa parte di questo piccolo mondo di narratori e restano imbrigliate in dinamiche per addetti ai lavori. Gipi mette molto di sé, e questo è apprezzabile. Ma il vero senso della pellicola, quella sensazione di disorientamento legata alla professione, propria di chi non sa come uscire dalle storie che crea, non è messa in scena nel migliore dei modi.


Dove finisce la realtà e inizia la fantasia? Gipi prova a condividere con lo spettatore le sue paure, la sua fragilità, ma vaga senza meta attorno al senso di inadeguatezza. Attraverso un’autoironia che stanca e appesantisce la pellicola, forse l’autore toscano ha perso l’occasione per farci fare un interessante viaggio nella realtà fantastica del mondo dei disegnatori. Ed è un peccato.


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