Un emozione: vedere sul grande schermo il viso di Woody Allen che racconta la storia d’amore con Annie, o perlomeno ciò che ne rimane, filtrata dalle sue nevrosi newyorkesi. La Cineteca di Bologna restaura in 4K uno dei capolavori del cinema mondiale, sotto l'attenta supervisione del cineasta americano. Io e Annie inizia con Allen (Alvy Singer nel film) che si rivolge, come se fosse in teatro o in un club, direttamente al pubblico. Il personaggio rompe, sin dal primo momento, l’incantesimo per ricordarci che il cinema è solo finzione. «Annie e io abbiamo rotto. E io non riesco ancora farmene una ragione»: incomincia così il racconto. La trama è la classica storia d’amore che ritroviamo in migliaia di film americani, con cadute e risalite. Ma senza drammi, Woody Allen condisce l’amore con la sua comicità insuperabile.Ritroviamo nella pellicola (vincitrice di numerosi Oscar tra cui miglior film, miglior regista, migliore attrice protagonista), esposte in maniera più completa e matura, tutte le classiche nevrosi del comico newyorkese: la dicotomia New York/Los Angeles, il giocare con le teorie freudiane, l’emancipazione femminile, l’umorismo ebraico che esplode in ogni scena. Alvin Singer nasce già perdente. O, per usare una espressione cara a Italo Svevo, nasce inetto, incapace di affrontare la vita, le sfide. Si nasconde dietro le idiosincrasie, che riflettono in parte i protagonisti del mondo dello spettacolo americano. La comicità , che in precedenza era più orientata allo slapstick comedy, in Io e Annie si sposta verso un umorismo costruito sul non-sense e su una forte dose di autoironia. L’aspetto più interessante è che il protagonista della pellicola non è Alvy ma Annie (nel titolo originale, Annie Hall, rimane anche il riferimento diretto al vero cognome di Diane Keaton: Hall): la Keaton si muove in maniera perfetta sul set, a volte superando Alvy in fatto di comicità , introducendo battute e dialoghi improvvisati, come ricorda lo stesso Allen a proposito della gag delle aragoste. Annie è maldestra, insicura, soggiogata da Alvy. Ma lentamente le posizioni si invertono e lei prende il sopravvento operando in autonomia le proprie scelte di vita. La soluzione alleniana è semplice: se nella vita le situazioni non possono essere controllate allora l’unica via è l’Arte. L’arte è malleabile alle invenzioni dell’autore che può controllare a suo piacere. Due scene esemplificano il concetto. Una è quella finale in cui Allen trasforma la sua storia con Annie in una commedia a teatro nelle quale tutto «finisce bene». L'altra, una delle più spassose del film, è quella in cui Alvy si trova in fila al cinema e un tronfio intellettuale si mette in mostra parlando saccentemente di cinematografia citando anche il famoso massmediologo americano Marshall McLuhan; Alvy lo rimprovera affermando che non capisce nulla di McLuhan, che improvvisamente entra in scena (interpretando se stesso) zittendo l’intellettuale. Alvy conclude: «Ragazzi, se la vita fosse davvero così». Io e Annie non dimostra gli anni che ha e ci riporta alla mente un Allen in piena forma, caustico, commovente; perfetto equilibrio tra comicità e amarezza. L’inquadratura riprende in campo lungo Alvy e Annie che si salutano dopo essersi ritrovati diversi anni più tardi a New York, e il regista chiude con una meravigliosa storiella narrata dalla sua voce fuori campo: «Era stato grandioso rivedere Annie, no? Mi resi conto che donna fantastica era... e di quanto fosse divertente solo conoscerla. E io pensai a... quella vecchia barzelletta, sapete... Quella dove uno va dallo psichiatra e dice: "Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina", e il dottore gli dice: "Perché non lo interna?", e quello risponde: "E poi a me le uova chi me le fa?. Be', credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, ehm... e pazzi. E assurdi, e... Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova».