
Nel 1304, nei pressi del castello di Stirling, i nobili scozzesi si arrendono a Edoardo I re d'Inghilterra, con la promessa che il sovrano restituirà loro tutte le terre tolte durante la precedente rivolta capeggiata da William Wallace, ora morto. Tra di loro vi è Robert Bruce, prossimo sposo della figlioccia di Edoardo: tempo prima si era unito alla ribellione ma ora, di fronte all'attuale situazione, accetta questo status di apparente tregua. Due anni più tardi, però, il popolo si trova a vivere ancora in povertà e oppresso dall'esercito invasore. Dopo aver scoperto della mutilazione del corpo di Wallace, i cui arti sono stati affissi come monito in diverse città del Paese scatenando proteste di indignazione, Robert decide, con il consenso dei suoi fratelli e della giovane moglie, di lottare contro le ingiustizie, proclamandosi re di Scozia e cercando di reclutare quanti più clan possibili dalla propria parte al fine di affrontare una volta per tutte Edoardo e il suo crudele primogenito, principe di Galles. Allo scoccare dei titoli di coda non è difficile comprendere la tiepida accoglienza riservata da critica e pubblico del Festival di Toronto all'ultimo film di David Mackenzie, reso disponibile come il già precedente, sopravvalutato, Hell or High Water (2016) direttamente sulla piattaforma Netflix come produzione originale. Il regista scozzese si approccia a una pagina cardine della storia del proprio Paese con grandi ambizioni e, inizialmente, queste sembrano mantenute nella messa in scena, nella certosina cura per i costumi e nelle ambientazioni in cui ha luogo la vicenda, con le highland e i castelli indigeni quale perfetto panorama per le diverse battaglie a venire. Uno sprint promettente che si trova ben presto a fare i conti con le ovvietà di una sceneggiatura che schiva l'epica in favore di una costruzione narrativa più didascalica e priva di pathos, inanellando situazioni e sviluppi che scadono in più occasioni nell'inverosimile e non permettono di entrare in giusta comunione empatica con i protagonisti. Complice anche un cast che si impegna ma non eccelle, a cominciare dallo stesso protagonista Chris Pine. I paragoni con un cult degli anni '90 quale Braveheart - Cuore impavido (1995), del quale Outlaw King - Il re fuorilegge si vorrebbe porre come sequel spirituale (non è un caso che i riferimenti si sprechino non solo nelle citazioni a Wallace, ma anche nella presenza in un piccolo ruolo di James Cosmo, già in un indimenticabile ruolo nell'opera gibsoniana), sono impietosi. All'operazione manca quel necessario senso di pathos e l'epica è sempre e soltanto sfiorata, con il climax che si spegne totalmente nell'epilogo che, invece di chiudere il cerchio per immagini, si affida ad una serie di scritte in sovrimpressione che informano sul destino dei vari personaggi, scelta quanto meno discutibile che dà l'impressione di una storyline troncata sul più bello. Mackenzie guarda ai classici del filone, inserendo anche i tipici discorsi motivazionali precedenti le schermaglie più significative, pure nella gestione romantica della vicenda, ma la stessa love-story tra Bruce e la bella Elizabeth (una comunque ottima Florence Pugh, la nota più lieta dell'intero cast) risulta incolore e sbiadita. La colonna sonora si alterna tra momenti più evocativi ed altri più canonici, mentre la fotografia regala scorci mozzafiato cogliendo al meglio il fascino innato delle colline scozzesi, risultanti il vero e proprio punto di forza di un'operazione sì sufficiente ma dalla quale era lecito attendersi qualcosa di più.