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Anatomia del Miracolo

16/11/2018 11:00

Monica De Simone

Recensione Film,

Anatomia del Miracolo

Le ragioni profonde di una devozione

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Uno dei centri di devozione mariana più importanti del territorio campano è il santuario della Madonna dell’Arco, situato nel comune vesuviano di Sant’Anastasia. Ogni anno, il giorno di Pasquetta, numerosi fedeli - i cosiddetti fujenti - accorrono a venerare la Vergine dal volto contuso, per ringraziarla dei favori ricevuti. Anatomia del Miracolo, diretto da Alessandra Celesia, indaga le ragioni profonde di una tale devozione attraverso tre figure legate, con modalità differenti, al culto della Madonna. C’è Giusy, una giovane antropologa ipovedente e costretta dalla nascita sulla sedia a rotelle, che abita di fronte al santuario e ha con la Vergine un rapporto conflittuale: dopo averle chiesto per anni, invano, il miracolo della guarigione, si interroga sulla possibilità che la sua condizione sia dovuta a una colpa intrinseca, impossibile da cancellare.


C’è Fabiana, transessuale, fervente credente e organizzatrice attiva, dal suo quartiere al centro di Napoli, del pellegrinaggio al santuario. E infine Sue, pianista coreana molto religiosa che cerca Dio nella musica per poter finalmente trovare la sua canzone. Tre storie, tre diverse rappresentazioni del dolore. Le protagoniste, pur non incontrandosi mai, sono legate dal sottile filo della sofferenza. Ognuna di loro ha una ferita da sanare, è in attesa di un miracolo che possa cancellare il livido nascosto nel profondo. La macchina da presa pedina le tre donne, segue i loro movimenti, si incolla ai loro volti sullo sfondo di una Napoli ritratta con le sue profonde contraddizioni, teatro di una fede popolare la cui sacralità si sposa con manifestazioni pagane e poco ortodosse.


Celesia alterna le tre vicende costruendo una struttura narrativa in cui ogni storia è raccontata con il giusto rispetto, senza alcun giudizio o superiorità intellettuale nei confronti di un culto religioso che sfiora il fanatismo. Seppur il racconto conceda, con grande equilibrio, lo stesso spazio alle tre storie, appare centrale la figura di Giusy il cui ritratto è sfaccettato e ricco di incongruenze. Giusy tutti i giorni augura il buongiorno e la buonanotte alla Madonna dell’Arco e conferisce con lei dandole del tu. Ha dedicato la sua tesi di laurea al culto mariano e, raccogliendo le testimonianze di diversi fedeli, conduce una ricerca sui presunti miracoli compiuti dalla Vergine. È però diffidente nei confronti dei prodigi a lei attribuiti, delusa e amareggiata dalla condizione in cui vive e dalle sue preghiere inascoltate. Non ha la fede granitica delle altre due protagoniste. È scettica e razionale quando rivela a un fedele che versa nelle sue stesse condizioni che «Forse crediamo perché ci serve». È amara e realista quando si chiede perché debba espiare un male che non ha mai commesso. Il documentario registra il percorso che compie per cercare una risposta alle sue domande, collocandola così in una posizione molto diversa rispetto a quella delle altre due protagoniste.


Per Fabiana il miracolo rappresenta qualcosa di indiscutibile, è il segno della sua incrollabile fede, la speranza di una vita diversa in cui non dover più giustificare le proprie scelte. Per Sue è il riflesso del paradiso, il desiderio dell’uomo di capire cosa c’è oltre la vita terrena. Per Giusy diventa, alla fine del doloroso viaggio interiore, qualcosa di estraneo alla sua vita e alle sue convinzioni, un appiglio da lasciare a chi il dolore non lo sa affrontare, «a chi la sofferenza non se la sa tenere».


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