C’era molta curiosità per questo Mowgli - Il figlio della giungla, soprattutto perché in regia vi è Andy Serkis, qui al suo debutto dietro la macchina da presa (anche se ufficialmente il suo esordio è Ogni tuo respiro datato 2017, girato dopo Mowgli - Il figlio della giungla, ma distribuito prima). Pioniere della recitazione in motion capture, Serkis ha dato vita a inconici personaggi come Gollum, King Kong, lo scimpanzé Cesare, Il capitano Haddock e il Leader Supermo Snoke. Dopo aver diretto la seconda unità nella trilogia de Lo Hobbit, decide di fare il grande passo mettendosi dietro la macchina da presa con un progetto interamente realizzato in motion capture: l’adattamento live-action (per così dire) de Il libro della giungla. Il punto di riferimento, però, sarebbe stato unicamente il romanzo originale di Kipling, con l’obiettivo di trasporre nel modo più fedele possibile le sue pagine, preservando la cupezza e soprattutto la crudezza della storia. Le riprese sono iniziate nel marzo del 2015 con il titolo (poi cambiato)Jungle Book: Origins e una release fissata a ottobre 2016, sei mesi dopo l’arrivo nelle sale della controparte disneyana di Jon Favreau. A causa di problemi legati alla distribuzione, l’uscita del film viene rinviata di un anno, poi di un altro, infine Netflix rende noto che avrebbe distribuito la pellicola in streaming a dicembre 2018. La storia è sempre la medesima, quella che noi tutti conosciamo grazie al classico Disney datato 1967. Mowgli, un cucciolo d’uomo (anche se qui non è più un bambino, ma un ragazzo all’inizio della pubertà) rimasto orfano, viene allevato da un branco di lupi. All’approssimarsi dell’età adulta però verrà sottoposto a una serie di riti di passaggio e messo d’innanzi alla sua vera natura, costretto a riflettere su ciò che differenzia l’uomo dagli altri animali. Guardando Mowgli - Il figlio della giungla, c’è una cosa che colpisce subito lo spettatore, nel bene o nel male: il senso di morte che permea la pellicola, distanziandola bruscamente dall’edulcorata trasposizione live action che ne aveva fatto la Disney appena un paio d’anni fa. Un cambio di tono radicale, quanto necessario, per far capire al pubblico che le due opere raccontano sì la stessa storia (anche se con i dovuti accorgimenti, soprattutto nel finale) ma con toni diversissimi tra loro. Dove Jon Favreau cercava di preservare il più possibile l’indole fiabesca de Il libro della giungla animato che tutti portiamo nel cuore, Andy Serkis invece rende tutto più cupo e crudele, affogando la storia e i personaggi in un mare di sangue, fango e cicatrici. Sono proprio queste ultime a segnare (in tutti i sensi) i personaggi e a donar loro un design così diverso e originale: sin dalla prima occhiata si ha l’impressione che siano animali che per tutta una vita hanno vissuto (e lottato e combattuto e ucciso se necessario) nella giungla. Cicatrici e mutilazioni sono sfoggiate con orgoglio; i segni di una vita passata a lottare traspaiono sui volti fiaccati di alcuni personaggi – in questo senso è bellissimo Baloo, interpretato proprio da Serkis, lontano anni luce dall’orso giocherellone che noi tutti conosciamo; qui è vecchio, stanco, burbero e con il volto mezzo paralizzato da un ictus – e sebbene la CGI non sia sempre ottima e in più di un’occasione si avverta un fastidioso “effetto-videogioco”, questi personaggi riescono a catalizzare l’attenzione dello spettatore. Lo fanno attraverso le loro storie, sia quelle che raccontano, sia quelle che i loro copri e le loro ferite lasciano intuire. Non tutto nella narrazione funziona come dovrebbe, eppure è impossibile non restare affascinati da questa trasposizione, dai suoi toni più maturi e sicuramente inediti rispetto a quanto già raccontato dalla Disney. Il senso stesso della storia è differente, un racconto di crescita e introspezione che porta Mowgli (e lo spettatore con lui) a riflettere sulla differenza tra essere un uomo e diventare un uomo. Un film più per ragazzi che per bambini, che di sicuro verrà (ingiustamente) bollato come ennesima trasposizione di una storia ormai arcinota, ma che di sicuro merita una possibilità. È palese che Andy Serkis avesse una idea ben chiara sul tono da impostare; ma è altrettanto chiaro che in via di realizzazione ci sia stato qualche intoppo. Come film d’esordio però rimane ottimo e incoraggiante.